Inizio l'anno con una piccola confessione. Ho sempre avuto una favorevole disposizione d'animo - diciamo una certa simpatia - verso i film che provengono da paesi dove la libertà ( a cominciare da quella politica ma continuando con quella di espressione artistica, che della prima è un naturale corollario ) fatica ad affermarsi o è addirittura assente. Questo a prescindere dal loro maggiore o minore valore estetico. Che talvolta può essere elevato - ho in mente alcune pellicole che dall' Unione Sovietica o da qualche altra nazione d'oltrecortina giunsero in Occidente negli anni della "guerra fredda "- come anche piuttosto limitato, e penso qui ad alcune balbettanti cinematografie del Terzo Mondo dove la carenza di mezzi non esalta certo una preoccupante povertà di idee. Belle o brutte, più o meno riuscite, le opere che provengono da paesi "difficili " per la loro situazione politico-sociale mi hanno sempre fatto tenerezza pensando agli ostacoli di varia natura che, per realizzarle, gli sceneggiatori, i registi, gli stessi interpreti, hanno probabilmente dovuto superare. Spesso esse mi attraggono anche perchè permettono di gettare uno sguardo su nazioni, società, esperienze umane , il cui vero volto i vari governi locali vorrebbero dissimulare ma che la forza stessa dell'immagine cinematografica ( anche la più controllata ) finisce impietosamente col rivelare o quantomeno col lasciarci intravedere. Non parlo delle opere più o meno propagandistiche o chiaramente insincere, concepite per confondere le idee dello spettatore straniero e fargli prendere...lucciole per lanterne. Mi riferisco ai film che - pur nella scontata assenza di elementi di forte critica ai regimi sotto i quali hanno visto la luce, chè altrimenti difficilmente uscirebbero dal loro paese - fanno trapelare tuttavia qualcosa di interessante, qualcosa per cui valga la pena di andarli a vedere. E se poi sono validi ed appassionanti anche dal punto di vista artistico, ciò non può che aumentare il piacere dello spettatore.
Tra le cinematografie dei paesi che per brevità ( per pudore ? ) ho definito " difficili ", quella iraniana è certamente una delle più interessanti. A parte il " decano " Abbas Kiarostami, conosciuto qui da noi già prima della rivoluzione del 1979, due registi mi sembra che si siano imposti, negli ultimi dieci-quindici anni per originalità e capacità di raffigurazione della realtà che li circonda. Il primo, più anziano , è Jafar Panahi, che due anni or sono ci ha dato il brillante e commovente " Taxi Teheran ", girato nella capitale con una piccola cinepresa dissimulata in un auto pubblica e poi trafugato in Occidente. L'altro, più giovane, è Ashgar Farhadi , autore in patria, qualche anno fa, del bellissimo "Una separazione " e successivamente, in Francia, di un altro film meno ispirato del precedente ma egualmente degno di nota di cui, al momento, non ricordo il titolo. Ed è proprio Farhadi che si incarica, nella stagione in corso, di fornirci una nuova prova della vitalità del cinema iraniano. Cinema guardato con sospetto dai governanti del paese, osteggiato in mille modi, spesso celato alla nostra vista per il diniego alla proiezione fuori dai confini nazionali. E perciò tanto più percepito come "trasgressivo" e suscettibile di attirare la nostra curiosità. Non che questi film ( con l'eccezione di "Taxi Teheran ", che gli iraniani ovviamente non hanno mai visto ) critichino apertamente il regime o mostrino personaggi e situazioni che si discostino troppo dalla ufficialità vigente in fatto di moralità e di costumi. Ma, come succede sovente sotto le dittature, quelle passate e quelle presenti, già il " parlar d'altro " cui sono costretti gli artisti per non incorrere nei fulmini della censura può offrire uno spiraglio attraverso il quale dare un'occhiata alle condizioni in cui si trova la società di quel determinato paese, all'evoluzione dei rapporti sociali, a cosa dicono e fanno i suoi abitanti. E se il regista e sceneggiatore del film di cui stiamo parlando, per venire al sodo, è onesto ( come lo è Farhadi ) anche una trama del tutto " apolitica ", apparentemente incentrata sul rapporto di coppia, può finire col dirci molto di più.
Amichevolmente rimproverato da coloro che trovano che mi spingo troppo avanti nell'esporre la trama dei film di cui parlo, non vi dirò molto sull'evoluzione della vicenda raccontata da " Il cliente" ( una volta tanto i distributori italiani non hanno cambiato il titolo originale, astutamente misterioso sino a metà della proiezione ). Siamo a Teheran, una Teheran fitta di brutte case cresciute come funghi negli ultimi anni, a volte mal edificate e a rischio di crollo in caso di abnormi sollecitazioni nelle aree adiacenti. Ed è così che inizia il film, con una sequenza drammatica e concitata in cui gli abitanti di un palazzo sono costretti, spinti da inquietanti scricchiolii e da improvvise crepe nei muri, a lasciare in tutta fretta ( è un'alba priva di luce ) le loro abitazioni ed a rifugiarsi in strada mentre enormi scavatrici procedono imperterrite, poco lontano, nella loro minacciosa ed imperscrutabile attività .Già in partenza, così, il regista ci immette in quella che è una delle dimensioni del film :la difficoltà di venire a capo di una situazione difficile, con la fuga come unica soluzione provvisoria, una minaccia che incombe sui personaggi, una violenza che è nelle cose e che si respira nell'aria. Forse è troppo facile attribuire a questa bellissima sequenza di apertura un significato metaforico, che rimandi alle condizioni della società iraniana ( la costruzione socio-politica voluta dai teocrati iraniani, sempre più pericolante ma che non cade ancora, sospesa tra la forte resistenza delle vecchie strutture e le poderose sollecitazioni del nuovo che avanza ) ma è anche difficile sostenere il contrario. E come non identificare nei due personaggi principali - un marito e una moglie ancora senza figli, professore di una scuola secondaria lui, casalinga lei, costretti a cercarsi un altro alloggio a causa della forzata evacuazione cui abbiamo assistito - una fetta di società iraniana, intellettuale e borghese, smarrita ed incerta, in cerca di un approdo meno precario di quello cui li costringe la situazione del loro paese ? Per di più ( ed è un tema che Farhadi , forse, avrebbe dovuto sviluppare con maggiore chiarezza ) la coppia recita, al termine della giornata lavorativa, in un teatro sperimentale nel quale viene rappresentato, lungo tutto il film, uno dei più significativi drammi di Arthur Miller, quel " Morte di un commesso viaggiatore " che è emblematico della impossibilità di raggiungere un agognato " status " sociale e di rinunciare ai sogni che pur si rivelano irrealizzabili.
Non basta. Marito e moglie non sembrano completamente affiatati ed un improvviso incidente rivelerà poi, tra di loro, differenze di carattere e di reazione di fronte alle difficoltà della vita tali da acuire quella sensazione di disagio che essi probabilmente vivono fin dall'inizio della storia. Una sensazione di irrisolto e di non detto che aleggia sull'intero film, dandoci l' impressione anche qui che, con tutta probabilità, essa è l'eco attenuata di una più ampia situazione di malessere dell'ambiente circostante, un ambiente timoroso e nel quale si preferisce fingere per non ammettere le proprie responsabilità, le proprie speranze e le proprie paure. Ben riuscita, a tale proposito, mi è sembrata la descrizione del rapporto tra il marito - che dirige il teatro sperimentale nel quale recitano lui e la moglie - e il resto della compagnia : amichevole, a tratti caloroso e partecipe, ma venato da improvvise reticenze ed esitazioni che si riveleranno determinanti. E la stessa messa in scena del dramma di Miller - negli squarci che ci vengono mostrati- non sembra scevra da qualche incertezza, da qualche errore interpretativo ( dovuto anche , occorre riconoscerlo, alla difficoltà di trasporre il dramma originario in un contesto ambientale così diverso e lontano ) quasi non si riuscisse a trovare una giusta " cifra " per cogliere e vivere, come la vicenda del dramma rappresentato,così la stessa difficile realtà che circonda i personaggi della vicenda filmica . Molto ben tratteggiato, infine , l'ambiente scolastico in cui svolge la sua attività il marito. Quei corpi adolescenti, quei volti imberbi ( in una società in cui tutti gli uomini hanno la barba ! ) che si stringono attorno all'insegnante, stretti tra il desiderio di apprendere, le tentazioni del progresso occidentalizzante ed il contrasto con la misera realtà con cui debbono fare i conti. Ecco, veramente, come si diceva prima , un " parlar d'altro" che è molto più significativo di cento discorsi maggiormente espliciti. E poi quelle donne nel film e perfino nella rappresentazione teatrale, costrette a coprirsi letteralmente dalla testa ai piedi ma così belle, così vibranti nella incisiva nudità dei loro volti, autentico motore della società e sfida permanente alla stupidità del regime : un ' altro evidente interstizio in una vicenda " privata " che consente allo spettatore occidentale una incontrovertibile lettura politica.
Un film , questo " Il cliente ", di uno spessore notevole, articolato e compatto, ricco di echi e di risonanze. Uno sguardo lucido eppure innamorato sulla società del suo paese ( nel film precedente il protagonista , sospeso tra Teheran e Parigi, finiva col constatare l'impossibilità per lui di restare lontano dall' Iran ). E un omaggio, sia pure indiretto, ad una grande civiltà ricca di umanità e di cultura, costretta oggi a restare isolata dal cuore pulsante del mondo ma portatrice di speranza e di pace. Tutto questo ad opera di un cineasta, questo Ashgar Farhadi, che non ha ancora finito di stupirci con la sua padronanza del mezzo cinematografico e con la capacità che ha nel trasferire in immagini forti e significative realtà complesse ed a volte sfuggenti. Un regista che ha assorbito i valori ed il linguaggio del cinema " occidentale " ma che rimane fedele - mi sembra di poter affermare - alla tradizione culturale, visivamente poliedrica ed intensa, del proprio mondo di appartenenza. Un cinema, il suo, coraggioso non solo nell'offrire dell' Iran una descrizione lontana dalla propaganda del regime ma anche nell' impiegare un linguaggio ( ad esempio l'uso di ripetuti primi piani ) che ci riporta al cinema di una volta, semplice e diretto nel colpire l'immaginazione dello spettatore. Gli attori ( come spesso nelle cinematografie dei paesi del vicino e medio Oriente ) sono intensi e fortemente espressivi. L' attore che interpreta il marito ha vinto, in sè non immeritatamente, il premio per la migliore interpretazione all'ultimo Festival di Cannes. Pura ingiustizia peraltro, se si pensa che analogo riconoscimento non è andato, purtroppo, all'attrice che interpreta la moglie e che , a mio giudizio, si è rivelata anche migliore : una bruna dai grandi occhi che le divorano il perfetto ovale del volto e sfidano cento, mille censori . Sono uscito dalla proiezione ( finalmente in una sala, qui a Milano, un po' meno vuota del solito ) con la gioia di aver visto quello che non sarà forse un capolavoro ma rappresenta pur sempre una degnissima testimonianza di ciò che il cinema può darci quando l'intelligenza e l'ispirazione riescono ad aver ragione di circostanze oggettivamente meno favorevoli.
Sono pienamente d'accordo nel piacere della visione dei film provenienti da paesi " difficili" dove la censura impedisce la libertá cinematografica, coraggiosi e impavidi registi lavorano in mezzo a difficoltà per noi inimmaginabili. Hi fatto un viaggio in Iran qualche anno fa e ne sono rimasta affascinata.
RispondiEliminaSpero di trovarlo ancora in programmazione, grazie ancora per la recensione la quale mi ha incuriosito. Francesca Boccassini
Molte grazie ! I suo è il primo commento che ricevo sul nuovo blog e lo tengo per particolarmente gradito ! L' Iran purtroppo non lo conosco, sono convinto anch'io che sia estremamente affascinante. Tutti gli iraniani che ho conosciuto in giro per il mondo mi sono sembrati gradevoli ed interessanti ( a volte , penso ai funzionari governativi di quel paese, più per le cose che non potevano dire che per quelle, abbastanza scontate, che avevano da raccontare... . Comunque auguro all' Iran e agli iraniani ogni bene e di recuperare presto una posizione centrale non solo nella politica internazionale ma nelle arti e nella cultura in generale.
EliminaAnche a me la lunga critica incuriosisce molto e cercherò di andarlo a vedere. Alfredo Matacotta
RispondiEliminaIeri ho visto il film e poi ho inviato il mio commento. Credo che non sia arrivato. Non capisco! Non lo trovo!
RispondiEliminaNon capisco cosa sia successo ! Provi ancora,assicurandosi che tutti i passaggi funzionino ( soprattutto il tasto " PUBBLICA " ) Sono ansioso di leggerLa ! Altrimenti scriva, per favore, su Facebook o mi mandi un messaggio sempre su Facebook. Grazie !
Elimina