In inusuale " contemporanea " con gli Stati Uniti, dove è sugli schermi dal giorno di Natale, " Vice " , l'ultimo film del regista e sceneggiatore Adam McKay ( " The big short - La grande scommessa " ) può essere visto attualmente anche da noi nelle sale. Altrove in Europa, sembra, arriverà solo alla fine di gennaio , se non a febbraio inoltrato. Un buon motivo per essere tra i primi, sul vecchio continente, a poter giudicare un' opera controversa e che in America (USA e Canada ) ha ottenuto accoglienze critiche favorevoli ma anche opposte, feroci stroncature. Il perchè di tanto clamore mediatico dall'altra parte dell' Atlantico lo si capisce facilmente , considerato che il film ha l'ambizione di descrivere l'ascesa, praticamente alle vette del potere nella più potente nazione del mondo, di un personaggio discusso e discutibile come Dick Cheney, vicepresidente all'epoca dei due mandati di George W. Bush, cioè di un " leader " estremamente divisivo . Riassumendo le tappe salienti della sua carriera e, soprattutto, svelando i meccanismi a volte poco nobili che lo portarono tanto in alto da essere , " de facto ", il vero artefice di buona parte delle scelte, soprattutto in politica estera e nella lotta antiterroristica, che contraddistinsero gli Stati Uniti nel periodo 2001-2008, il film di McKay non nasconde una viscerale antipatia per il suo personaggio e tratteggia prevalentemente in nero gli aspetti di una personalità dipinta come a dir poco sconcertante. Naturale quindi che, per prima cosa, la critica dei media " liberal " abbia esaltato il coraggio e la " vis " polemica con cui il regista-sceneggiatore ha costruito quest'opera. Un'opera che, a tratti per la verità, appare più come una vera e propria requisitoria contro i "neoconservatori" e l'intero partito repubblicano che un'inchiesta obiettiva su un periodo di storia americana ancora tutto da sistemare in sede storico-politica ( accanto al più facile bersaglio della deludente gestione Bush, non fanno qui miglior figura tutte le altre amministrazioni repubblicane degli ultimi cinquant'anni, da Nixon a Ford e poi a Reagan e a Bush padre che qualcosa di buono, è da pensare, debbono pure aver fatto). E le critiche al film non hanno risparmiato, in prima battuta, proprio l'atteggiamento manicheo e " schierato " del libertario - e forse un tantino nichilista - McKay.
Vediamo di mettere un pò d'ordine noi che , in fondo, non dovremmo parteggiare per gli uni o per gli altri ma giudicare soltanto i fatti. E soprattutto valutare se, da un punto di vista strettamente cinematografico, si tratti di un buon film o di un film che lascia delusi, come sostengono alcuni critici americani non necessariamente sospetti di simpatie per il partito repubblicano e per l'epoca di Bush figlio. Cominciamo col dire che , al cinema, opere polemiche, talvolta autentici " pamphlets " contro questo o contro quello, non sono mai mancate e che ogni autore è libero di vedere in positivo o in negativo i propri personaggi, veri o inventati. In questo senso " Vice " ( che bel titolo, visto che in inglese suona anche come " vizio " , ovviamente del potere e che potere ! ) non può certo essere attaccato se , in tutta legittimità, dipinge Cheney, dapprima oscuro ma ambiziosissimo politicante con scarsa istruzione e poche qualità e poi onnipresente " deus ex machina " di tante scelte che hanno avuto spesso drammatiche conseguenze in patria e sulla scena internazionale, come uno spietato manipolatore ed un pericoloso psicopatico. Tanto per ricordare, Edgar Hoover, fondatore e capo della CIA , dal bel film che gli ha dedicato anni fa Clint Eastwood non esce certamente meglio. E così altri personaggi della vita pubblica americana degli ultimi cento anni di cui si vanno man mano scoprendo e volgarizzando fatti e misfatti. Ci mancherebbe. Qui McKay ha adottato un punto di vista diremmo giornalistico-televisivo, affastellando tutto quanto di negativo poteva emergere per suffragare la sua tesi senza curarsi molto di scavare maggiormente in profondità nel suo personaggio. Senza chiarirci per esempio, al di là di tanti momenti satirici ed innegabilmente gustosi della parabola ascendente di Cheney, come si sia formata e da dove traesse linfa vitale una personalità così sconcertante - per i suoi stessi compagni di partito - come lui. Fa difetto, in sostanza, un esame più spassionato delle origini di Cheney, della sua formazione , del modo in cui ha saputo man mano soggiogare psicologicamente tutti coloro che potevano sbarrargli la strada. Il wellesiano ed immaginario "Citizen Kane " ( nel film omonimo che da noi è conosciuto come " Quarto potere " ) non era meno demoniaco ed esecrabile del nostro vicepresidente. Ma la sua psicologia, la sua ambiguità ( nessun uomo, in fondo, è tutto buono o tutto cattivo ) ed il suo retroterra culturale ed ambientale ne uscivano a tutto tondo, tanto da commuoverci ed emozionarci lungo tutto il film e facendoci quasi dimenticare che il personaggio era ispirato ad un uomo realmente esistito, il magnate della carta stampata Randolph Hearst, tanto risultava credibile ed universale.
L'approccio di McKay è diverso. Meno psicologico, e in fondo anche meno storico, privilegia il lato, come si è detto, giornalistico e scandalistico della vicenda, pago di suscitare nello spettatore facile riprovazione per i metodi e le iniziative di Cheney. Ma non riuscendo quasi mai a darci una vera, piena, emozione estetica e morale al tempo stesso che ci permetta di situare il suo personaggio al centro di un autentico reticolo di sentimenti, passioni, ambizioni, successi e delusioni, tale da creare in noi una plastica percezione del potere, della sua grandezza e della sua miseria, del lato affascinante e terribile di quest'ultimo. Se non fosse ingeneroso e spropositato per McKay diremmo che in " Vice " c'è poco Shakespeare ( nonostante il duetto in camera da letto, in chiave Macbeth, tra Cheney e sua moglie ) e più un'abile ricostruzione da " talk show " di una fase cruciale della storia del nostro secolo. Con tutti i limiti che questo comporta ( scarso approfondimento, poca prospettiva, scarsa o punto obiettività critica ). Ma anche con la indubbia, epidermica efficacia che il " taglio " volutamente fazioso della narrazione comporta. E qui, debbo dire, incominciano anche i meriti del film , che ci sono e giustificano ampiamente il tempo investito per andare a vederlo. Mettere insieme, infatti, tanti piccoli episodi, sia pure a senso unico, della biografia di Cheney, mischiandoli in un caleidoscopio a tratti confuso e leggermente spiazzante ma spesso sorprendentemente ben calibrato e divertente, rende il film piacevolmente scorrevole, frutto della vena ribaldamente satirica che il regista è venuto sviluppando nei suoi film precedenti. Ma molto merito, va subito aggiunto, spetta qui ad un " cast " davvero di prim'ordine e che meriterebbe- questo sì - un Oscar cumulativo per l'interpretazione. Non solo a Christian Bale che è un Dick Cheney mostruosamente somigliante ( l'attore è ingrassato di venti chili per impersonarlo a dovere ) o ad Amy Adams, sempre più brava nel sinistro personaggio di Lynne, la moglie del Vice. Ma anche ai personaggi di contorno, intelligentemente tratteggiati, a cominciare dal Donald Rumsfeld di Steve Carell ( attore da noi poco noto ma popolarissimo negli USA ) e per finire con il Bush figlio di Sam Rockwell ( il quale rischia seriamente, anche quest'anno, un Oscar per il miglior attore non protagonista ). Per finire con il più piccolo dei personaggi minori - minori nell'economia del film , come Reagan, Kissinger, e via dicendo. Debole come sceneggiatore ( il film è a tratti confuso ed è difficile non perdere il filo conduttore ) McKay è un discreto regista. Certi confronti tra i personaggi ed alcune delle scene più drammatiche rivelano capacità indubbie. Se questo lo porterà ( oggi ha cinquant'anni di età ) a diventare un vero autore cinematografico o a scivolare nelle requisitorie alla Michael Moore, solo il tempo potrà dircelo.
La fine delle Feste ( cioè di un periodo in genere fausto per le sorti di noi spettatori cinematografici ) induce ad un breve " ripasso " di cosa c'è di buono ancora sugli schermi di casa nostra e che merita di essere visto. Incominciamo da " Roma " di Alfonso Cuaron, il vincitore dell'ultima " Mostra " di Venezia e che rischia di sparire dalla circolazione perchè fruibile contemporaneamente sulla piattaforma Netflix ( per chi è abbonato ). Si tratta di uno dei più bei film degli ultimi anni e che riannoda convincentemente il cinema di oggi alla grande tradizione del passato. Metterei subito dopo " Cold War ", un prodigioso esercizio di regia del talentuoso polacco Pavel Pawlikowsi ed una gran bella storia di un amore tormentato sullo sfondo, appunto, della " guerra fredda ". Ancora due bei film usciti negli ultimi giorni e che sono da vedere con grande piacere estetico , e di cui questa rubrica ha parlato dando conto, in passato, dei film di Venezia. Il primo è " Il gioco delle coppie " ( in Francia " Doubles vies " ), un film interessante per l'argomento, cioè il predominio attuale dei cellulari, dei supporti informatico-digitali di ogni tipo e le conseguenze sulla nostra vita di tutti i giorni, in un intreccio di personaggi e di vicende davvero ingegnoso. Il secondo,al cinema da pochi giorni , è " Van Gogh, alle soglie dell' eternità ", opera di un artista come Julian Schnabel che ripercorre con uno sguardo molto originale l'ultima fase della vita del grande pittore olandese. E infine , se proprio ci si vuole " divertire " , nel senso di farsi veramente quattro risate, " Sette uomini a mollo " ( orribile titolo italiano di " Le grand bain ", intelligente operina del francese Gilles Lellouche ). E chi ha detto poi che al cinema bisogna per forza piangere o spremersi le meningi ?
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