" La truffa dei Logan ", da pochi giorni nei nostri cinematografi ancorchè sia uscito negli Usa quasi un anno fa, segna il ritorno sul grande schermo di Steven Soderbergh, il regista che nel 1989 vinse giovanissimo a Cannes con il suo primo e molto promettente lungometraggio ( " Sex, lies and videotapes " ) e che ha poi avuto una carriera con qualche cedimento alle esigenze commerciali (" Ocean's eleven " e i due seguiti) ma nella quale compaiono anche opere tutt'altro che banali ( " Traffic " , " Contagion ", " Side effects " ). Avevamo perso le sue tracce da qualche anno , da quel " Dietro i candelabri " ( magistrale melodramma omoerotico sul pianista Liberace ) che , girato per la televisione, fu distribuito nelle sale soltanto in Europa e che rischiava peraltro di essere il suo definitivo addio, tutto preso come egli era ,ormai, a girare solo episodi di serie televisive. Prima di parlare del film, il solito appunto ( purtroppo ) ai distributori italiani. Questi, non contenti di averlo immesso nel circuito quando la bassa frequentazione delle sale dovuta alla incipiente stagione estiva non lascia sperare grande successo di pubblico, gli hanno affibbiato un titolo italiano che non solo tradisce l'originale ( " Logan Lucky " ) ma annuncia una " truffa " che non c'è : furti ed inganni sì, quelli ci sono, ma perchè inventarsi qualcosa che assolutamente nella trama non compare ?
Sia come sia, andate a vedere il film se vi piacciono le storie ricche di personaggi e di intrighi, al limite del verosimile ma raccontate benissimo . Un " divertissement ", in sostanza, che punta molto sull'incalzare dei colpi di scena, sul ritmo e sulle battute di un dialogo mai scontato. Ma che è anche, a suo modo, un divertente ritratto, caustico eppure affettuoso a tratti, dell' America minore : quella lontana dai grandi centri, con tanta gente sfigata e che si arrabatta per uscire dalla mediocrità. Un film che la perfetta sceneggiatura ( opera di una sconosciuta, Rebecca Blunt, sotto il cui nome si celerebbe secondo alcuni lo stesso regista) la buonissima interpretazione e soprattutto l'elegante regia si incaricano di sollevare dal semplice e scontato " cinema d'azione ".
Questi Logan sono due fratelli abbastanza sfortunati che vivono in West Virginia, dediti a lavoretti e piccoli inghippi per sbarcare il lunario ma sempre con la speranza , un giorno, di sistemarsi per benino. Venuti fortuitamente a conoscenza della possibilità di fare un grosso colpo impadrenendosi dell'incasso di una affollata ed assai redditiva " kermesse " automobilistica che si svolge annualmente a Charleston ( La " Coca Cola 400 " o qualcosa del genere ) mettono in piedi, con l'aiuto della loro intraprendente sorella e di un abilissimo scassinatore, un " colpo " capace di procurare loro una fortuna ( ingegnosa, non so se vera o inventata, la circostanza che i biglietti di banca da "prelevare " e frutto delle varie transazioni commerciali che avvengono durante la corsa vengano man mano convogliati in speciali contenitori trasparenti immessi poi, tipo posta pneumatica, in un complicato circuito sotterraneo di tubi che li riversano infine, tutti ammassati l'uno sull'altro, in un gigantesco caveau simile a quello in cui il Paperone dei fumetti di Walt Disney fa il suo bagno mattutino ). Ma la storia, per rendersi interessante, deve naturalmente moltiplicare le difficoltà e le sorprese cui si trovano confrontati i nostri eroi, costringendoli a continui espedienti ed intrighi di pregevole concezione e fattura e consentendo così al film di presentarci sempre nuovi personaggi minori ma tutti gustosissimi, quali un direttore di carcere preoccupato del " rating " del suo stabilimento ed una coppia di investigatori del FBI dallo sguardo inquietante. Non dirò, naturalmente, se il colpo riuscirà per non togliervi la sorpresa. Vedrete da voi , ed occhio al finale.
Avrete capito, dal riassunto che vi ho fatto della trama, che film del genere devono avere una sceneggiatura di ferro : e questo ce l'ha, per giunta sufficientemente credibile e divertente. Debbono avvalersi poi di una interpretazione puntuale ed accattivante per evitare che i personaggi risultino troppo stereotipati. E qui gli attori principali sono tutti bravi, a cominciare da Adam Driver ( il "Logan senza una mano" ), uno degli attori americani più interessanti degli ultimi anni, per andare a Channing Tatum ( misurato e toccante "Logan claudicante" ) e chiudere con Daniel Craig ( ex James Bond ) giusto leggermente un pò sopra le righe nella parte del " re delle cassaforti ". Senza parlare, poi, dei caratteristi che danno corpo ai gustosi personaggi minori cui si è accennato. Tra questi, una menzione particolare va certamente a Hilary Swank ( la ex " million dollar baby " del bel film omonimo di Clint Eastwood ) nella piccola ma incisiva parte dell'agente FBI chiamata ad indagare sul furto al circuito di Charleston. Ma il merito principale della riuscita del film ( una " piccola " riuscita per un piccolo film, ma molto godibile ) va senza dubbio a lui, Steven Soderbergh, cui si deve anche la fotografia e il montaggio ( e forse, come si è detto, la stessa sceneggiatura ). L'intelligenza della messa in scena ( precisa, mai invadente eppure " significante " quanto basta ) lo si vede nelle piccole cose. Quella descrizione del suburbio semirurale dove vivono i protagonisti, metà periferia urbana , metà " frontiera ", accresce di un nuovo tassello una appassionata ancorchè disincantata descrizione del suo Paese, iniziata fin dal suo primo film. Si è detto che quella di Soderbergh è l' America di Trump : deideologicizzata, incerta sul proprio destino, preda dei miti consumistici più retrivi. Può darsi. Ma è anche l' America di sempre: quella del " self made man " nel bene e nel male, del delitto e del castigo, del diritto di tutti alla felicità e dell'impossibilità per molti di raggiungere qualcosa che appena le somigli.
Tutt'altra storia con il secondo dei film di cui volevo parlarvi questa settimana. Siamo sempre nella commedia e nel " divertissement " di un regista importante e che ha fatto sicuramente film migliori di questo,il nostro Mario Monicelli. Eppure, in questo delizioso film di più di sessant'anni fa , c'è tutto il suo gusto per la descrizione degli ambienti popolari e piccolo- borghesi, fatta diremmo in punta di penna, senza enfasi o critica eccessiva o quel gusto per il grottesco e lo sberleffo che sono il punto limite della pur pregevole " commedia all'italiana " degli anno 50-60-70 del secolo scorso. Il primo cinema di Monicelli ( da " Guardie e ladri " , 1950, a " Risate di gioia ", 1960, ha un tocco lieve, pensoso, con qualche venatura di elegia e di ironia appena accennate, che lo distingue dal maggiormente impegnato " cinema civile " del periodo seguente : " La grande guerra " , " Tutti a casa " e poi via via sino a " Amici miei " quando il tono si fa più amaro e convulso ). Nelle storie filmate da Monicelli , come in questo " Padre e figli ", i personaggi sono appena abbozzati eppure conservano una loro grazia , una loro verità, che anni dopo il regista faticherà a ritrovare con altrettanta eleganza e la stessa scioltezza. Vorrei davvero che lo (ri)vedeste, dato che ne esiste un DVD di ottima fattura. Ritrovereste un' Italia così diversa da quella attuale. Forse più incerta nel suo cammino, piena di residui del passato, certamente ingiusta nella sua stratificazione sociale, nella moralità di facciata, nelle limitazioni poste alla componente femminile. Ma molto più speranzosa, ricca di vitalità, piena di possibilità ( anche quelle che poi non si sono realizzate).Un'Italia a suo modo commovente , almeno nel ricordo di coloro che quel tempo lo hanno vissuto.
La trama di un film come " Padri e figli " non si racconta. Sono tante piccole vicende , come si usava allora , tenute insieme dalla ubiquità di alcuni personaggi, dall'unità di luogo e di azione, proprio come nel teatro , comico o leggero, di una volta ,. Storie che si intrecciano, leggere , esili certamente ma condotte con sottile maestria ( soggettisti e sceneggiatori , oltre allo stesso Monicelli, Age e Scarpelli, allora la coppia regina nella scrittura dei film, con un giovane Leo Benvenuti ). Il tema, come suggerisce il titolo, è quello del rapporto tra le generazioni : padri severi ( lo sarebbero stati ancora per poco ) e figli scalpitanti di modernità e di emancipazione. Ma tutto, come dicevamo, senza toni troppo netti, esasperati o drammatici. Solo il lento fluire della vita, con molta tolleranza reciproca e non poca saggezza da parte, in fondo , degli uni e degli altri.Oltre alla regia di Monicelli , attenta , delicata eppure sicura, e alla sceneggiatura di cui abbiamo detto, qui pure ( come già in " La truffa dei Logan " ) è da lodare l'interpretazione. Nelle parti principali un Vittorio De Sica ben più misurato ed umano che in altre operine della stessa epoca , un Marcello Mastroianni su cui non pesava ancora il successo mondiale de " La dolce vita ", una Marisa Merlini tenera ed ironica, una graziosa Lorella De Luca appena fresca del successo di " Poveri ma belli " .Ma i " comprimari " non sono certo da meno, da uno straordinario Ruggero Marchi nella parte del ginecologo, a Memmo Carotenuto, a Raffaele Pisu, a Franco Interlenghi ed Antonella Lualdi. Ecco la vera forza del cinema italiano di quei tempi. Non solo grandi registi e sceneggiatori ispirati. ma attori e " caratteristi " come oggi, nel nostro cinema, purtroppo non ce ne sono più molti. E questo , insieme a quei fattori di cui altre volte si è detto, spiega perchè abbiamo perso quel primato europeo che un tempo tutti ci invidiavano. Ma oggi ( ancora per pochi minuti ) è la Festa Nazionale ed è d'uopo nutrire solo pensieri di speranza e di ottimismo...
La trama di un film come " Padri e figli " non si racconta. Sono tante piccole vicende , come si usava allora , tenute insieme dalla ubiquità di alcuni personaggi, dall'unità di luogo e di azione, proprio come nel teatro , comico o leggero, di una volta ,. Storie che si intrecciano, leggere , esili certamente ma condotte con sottile maestria ( soggettisti e sceneggiatori , oltre allo stesso Monicelli, Age e Scarpelli, allora la coppia regina nella scrittura dei film, con un giovane Leo Benvenuti ). Il tema, come suggerisce il titolo, è quello del rapporto tra le generazioni : padri severi ( lo sarebbero stati ancora per poco ) e figli scalpitanti di modernità e di emancipazione. Ma tutto, come dicevamo, senza toni troppo netti, esasperati o drammatici. Solo il lento fluire della vita, con molta tolleranza reciproca e non poca saggezza da parte, in fondo , degli uni e degli altri.Oltre alla regia di Monicelli , attenta , delicata eppure sicura, e alla sceneggiatura di cui abbiamo detto, qui pure ( come già in " La truffa dei Logan " ) è da lodare l'interpretazione. Nelle parti principali un Vittorio De Sica ben più misurato ed umano che in altre operine della stessa epoca , un Marcello Mastroianni su cui non pesava ancora il successo mondiale de " La dolce vita ", una Marisa Merlini tenera ed ironica, una graziosa Lorella De Luca appena fresca del successo di " Poveri ma belli " .Ma i " comprimari " non sono certo da meno, da uno straordinario Ruggero Marchi nella parte del ginecologo, a Memmo Carotenuto, a Raffaele Pisu, a Franco Interlenghi ed Antonella Lualdi. Ecco la vera forza del cinema italiano di quei tempi. Non solo grandi registi e sceneggiatori ispirati. ma attori e " caratteristi " come oggi, nel nostro cinema, purtroppo non ce ne sono più molti. E questo , insieme a quei fattori di cui altre volte si è detto, spiega perchè abbiamo perso quel primato europeo che un tempo tutti ci invidiavano. Ma oggi ( ancora per pochi minuti ) è la Festa Nazionale ed è d'uopo nutrire solo pensieri di speranza e di ottimismo...
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