domenica 11 dicembre 2016
"E' solo la fine del mondo " di Xavier Dolan ( Canada / Francia, 2016)
Grande tema, quello della libertà. Libertà personale, non politica intendo ( anche se la seconda , è ovvio, entra nella prima per arricchirne i contenuti ). Voglio dire la possibilità di autodeterminarci, di decidere del nostro presente e del nostro futuro superando i condizionamenti- interni od esterni, strutturali od occasionali - che limitano o frenano il nostro sviluppo quali esseri creati, appunto, per essere liberi e indotti a scelte il più possibile autonome. L'esperienza , la nostra come quella degli altri, ci indica quanto questo sia difficile. Sicchè ogni discorso sulla libertà, anche dalla prospettiva che qui ci interessa , cioè quello della creazione artistica, finisce con l'evidenziare spesso traiettorie umane alla ricerca della libertà ma che finiscono, in ultima analisi, col rimanerne distanti.
Due film visti di recente- il primo sugli schermi in questi giorni, il secondo in un DVD anch'esso uscito da poco- parlano di libertà e, nel parlarne, ne mettono fortemente in dubbio l'esistenza.
Il personaggio principale di " E' solo la fine del mondo ", uno scrittore di successo sulla trentina ( Gaspard Ulliel ) decide di tornare a visitare i familiari, lasciati più di dieci anni prima, per annunciare loro la sua morte imminente. Ma si rende conto nelle poche ore trascorse con essi di quanto tutti, in fondo, siamo prigionieri del nostro " io " ed incapaci pertanto di aprirci verso gli altri. La sorella minore ( Léa Seydoux ) che pure lo ha mitizzato nei lunghi anni di assenza, non trova con lui un vero terreno di intesa, incapace di fuggire dai soffocanti condizionamenti familiari e di vivere, altrove, la vita autonoma alla quale aspira. Il fratello maggiore ( Vincent Cassel ) che ha verso di lui un evidente complesso di inferiorità derivante dal proprio fallimento professionale ed affettivo, sembra una mosca impazzita, prigioniera in un bicchiere , pieno di aggressività e di paura del futuro. La madre ( Natalie Baye ) ha l'apparenza di una creatura premurosa ,intenta a ricucire le lacerazioni della sua famiglia, affettuosa ed indulgente verso i figli. Ma in realtà è un personaggio ancora più negativo, manipolatrice e castrante, un' ape regina che tesse- inconsapevolmente ? - una trama sottile ma resistente per imprigionare sempre di più i propri familiari in una casa che ha tutta l'apparenza di una prigione. Solo la moglie del fratello maggiore, timida e sottomessa ( Marion Cotillard ) vorrebbe stabilire una comunicazione con il nuovo arrivato , forse per chiedergli aiuto, per riceverne una spinta ad affrancarsi, fuggire essa stessa. Ma i goffi, quasi afasici, tentativi da lei posti in essere non hanno sbocco e si infrangono sulle sue stesse paure.
Dopo un lungo, interminabile " pranzo di famiglia ", lo scrittore, giunto con l'intento, probabilmente, di ritrovare la propria infanzia e con essa un ultimo aggancio con la vita che lo sta abbandonando, comprende che il tentativo è fallito e, rinunciando al proposito iniziale di mettere gli altri al corrente della propria situazione, riparte definitivamente. Si è accorto- mi viene fatto di pensare- che anch'egli è in fondo un prigioniero : prigioniero dei propri ricordi d'infanzia e di adolescenza, delle tensioni e dei rapporti di forza all'interno della famiglia , della propria incapacità ad assumere pienamente quella dimensione autenticamente libera che un tempo aveva vagheggiato, prigioniero della propria chiusura verso l'esterno. Un vinto, come tutti. E a cui non rimane che la fuga, una fuga che ha solo il sapore derisorio della libertà ma che non lo affranca dai propri fantasmi interni.
Una storia così tesa e disperata, con poche o nessuna apertura non dico ottimistica ma almeno vagamente consolatoria, per essere raccontata al cinema in modo da giustificare il nostro interesse ed un eventuale piacere necessita, credo di poter dire, di due cose fondamentali. La prima è la recitazione, una interpretazione da parte degli attori capace di farci accostare positivamente a personaggi di cui finiamo col sapere in realtà molto poco e che sono, in definitiva, puramente dimostrativi della tesi sostenuta dal film, cioè ombre ancora più evanescenti di quelle cui lo schermo cinematografico ci ha reso adusi. Se ho voluto ricordare dianzi i nome dei cinque interpreti è per testimoniare tutta la mia ammirazione per il difficilissimo sforzo da essi compiuto, per la sottigliezza e la profondità conferita ai loro personaggi ( con una menzione speciale per le due più giovani attrici, Léa Seydoux e Marion Cotillard ).
La seconda condizione per apprezzare la visione di un film come questo è quella che dietro la macchina da presa vi sia un grande regista. Qui il francocanadese Xavier Dolan ( ventisette anni, beato lui, e già al suo quinto o sesto lungometraggio ! ) conferma di esserlo. Dirigere gli attori in ruoli, sulla carta, così poco accattivanti, farli muovere in un " décor " soffocante quale una casa di abitazione dalla quale non usciremo praticamente mai per tutta la durata del film, sfruttare quindi intelligentemente le scarne possibilità di creare in tal modo immagini che riescano ad imporsi con bella evidenza plastica, costruire una progressione drammatica coesa e coerente, non è uno sforzo da poco. Uno sforzo che richiede abilità, senso del ritmo, intelligenza e gusto non comuni. Uno sforzo che Dolan compie con scioltezza, giocando molto sui primi piani per evidenziare i tratti del volto dei suoi personaggi, le loro apparenti motivazioni, l'ambiguità che è sottesa alle loro parole. E la cinecamera, come in tutti i suoi film , sottolinea con i suoi frequenti movimenti la sensazione di precarietà e di impotenza di quanto ci viene mostrato.
Tuttavia " Juste la fin du monde " rappresenta a mio avviso un film riuscito solo a metà ed un passo indietro rispetto allo straordinario risultato della sua precedente opera , quel " Mommy " che era un vero pugno nello stomaco tanto ci sorprese con la sua straordinaria bellezza ed intensità.La storia sembra a tratti piuttosto cerebrale, costruita a tavolino, non sentita fino in fondo, forse, dal regista. Confesso, e credo conveniate che per uno spettatore questo sia un brutto segnale, che ho provato a tratti un sentimento di noia , di non adesione totale alle immagini che si inseguivano sullo schermo, pur riconoscendo la loro giustezza, la loro perfezione estetica. Insomma , al " movimento" delle immagini filmiche ( motion ) che rappresenta una sfida vinta da Dolan, non corrisponde il secondo elemento essenziale perchè un film ci piaccia, e cioè l'elemento "emozionale" ( emotion ). In buona sostanza, il film non cattura il nostro cuore e la nostra sensibilità più profonda , cosa che - è evidente - va al di là della ammirazione per i risultati massimamente formali.
La spiegazione di questa dicotomia sta in una considerazione molto semplice. " E' solo la fine del mondo " rappresenta la trasposizione filmica di un dramma dallo stesso titolo del francese Jean -Luc Lagarce, acclamato ed indubitabilmente ispirato autore e regista teatrale. Non ho visto quella " pièce " ma, vedendo il film di Dolan, penso che mi sarebbe piaciuta.Sono convinto che, sulla scena, la sensazione di angoscia e di paura che proviene dall'interagire dei cinque personaggi e dai dialoghi che essi pronunciano ( e dai loro inquietanti silenzi, a volte ) risulterebbe molto più efficace e percussiva di quanto non avvenga sullo schermo. Il teatro ha regole interne, tempi e pause di sospensione tutte diverse da quelle del cinema e "reinventare " tutto questo - come il regista canadese ha pur tentato di fare - non è impresa semplice. Lo provano le opere cinematografiche che, per non essere semplice teatro filmato, hanno dovuto appunto sfuggire, e lo hanno fatto con successo, alle convenzioni teatrali e hanno finito con il dare vita ad una creazione per molti versi autonoma ( penso ai film shakespeariani di Orson Welles ). Nè teatro filmato nè cinema autonomo ( giacchè il film non riesce sufficientemente ad evadere dall'impianto teatrale di un soffocante " huis clos " ) " Juste la fin du monde " resta una pausa interlocutoria - certamente di classe anche se minore - in una filmografia , quella di Dolan, destinata ancora a stupirci.
La lunghezza di questa noterella mi impedisce, per non annoiarvi troppo, di parlarvi del secondo film sul tema della libertà visto di recente. Prometto di farlo alla prima occasione utile ( cioè senza film recenti di un qualche interesse ). Per finire su di una nota meno grave, diciamo che non desidero privarvi, a mia volta, della vostra libertà...
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