Quando arriva
l' autunno, l'appuntamento con Woody Allen al cinema è di rigore. Dal
1970, o giù di lì, sono almeno una cinquantina i film che il prolifico
regista
ha diretto e - fino a qualche anno fa- quasi sempre
interpretato. Da qualche tempo a questa parte, complice ( è
sull'ottantina) il naturale invecchiamento, ha smesso di apparire sullo
schermo con nostro grande rimpianto. Non che i suoi film che non lo
vedano nel cast siano meno interessanti o riusciti degli altri.
Tutt'altro. A mio avviso, "L'altra donna " ( con una sontuosa Gena
Rowlands affiancata a Mia Farrow ) e soprattutto " Match point "
rimangono , ancorchè lui non vi reciti ,tra i suoi capolavori assoluti.
Ma, certo, lo stranulato e inconfondibile sguardo di Woody, la sua
recitazione tutta " in diminuendo ", fatta di pochi ma indovinati gag
visivi, le sue battute fulminanti, costituivano un efficacissimo " plus "
che non ci saremmo mai stancati di apprezzare.
La sua ultima
fatica, sotto una apparenza lieve e leggermente svagata, ha uno
spessore e una profondità che , se devo essere sincero, non riconoscevo
sempre facilmente nelle opere più recenti. Intendiamoci. Vedere uno
degli ultimi sei o sette film di Allen è sempre un'esperienza
piacevole. Pochi autori di commedie ( il genere da lui maggiormente
frequentato ) sanno essere altrettanto intelligenti e garbatamente
irriverenti, oltre che raffinati e formalmente perfetti. Ma , a volte,
terminata la proiezione, non rimane molto di più nel nostro ricordo. Il
film, insomma, non torna ad aleggiare nella nostra mente e non riscalda
i nostri cuori : abbiamo attraversato un'esperienza gradevole ma poco
incisiva, che non dà esca al nostro immaginario e non " fermenta "
dentro di noi.Non è tanto una questione di ripetitività- egli è accusato
spesso di raccontare , in fondo, sempre la stessa storia con personaggi
più o meno identici- quanto di assenza talvolta di un " sottotesto ",
di una dimensione cioè che oltrepassi la semplice trama e che dia a
tutto il film vigore e sostanza . Non pretendo, badate bene, che Allen
ci offra un " messaggio ", cioè una " morale " delle storie che
racconta e che , come talvolta succede al cinema, rischierebbe magari di
rimanere esterna alle forme, cioè all'essenziale, di cui è fatta ogni
opera , bella o brutta , intelligente o stupida che sia. Ma - come mi
succede ogni volta che ricado nell'antico " vizio " di guardare delle
ombre che si muovono su uno schermo- mi aspetto che l'autore mi
emozioni, mi commuova , mi faccia pensare, attraverso la capacità
evocativa delle immagini che scorrono davanti ai miei occhi.
La
storia è semplice, quasi esile nella sua voluta essenzialità. Il nostro
giovane protagonista- siamo intorno al 1935- è ancora una volta un ebreo
newyorchese, in fondo un Woody Allen più giovane di quasi mezzo secolo,
più in bello ma egualmente timido, speranzoso , dallo sguardo
eternamente stupito e pieno di emozione ( " sembri un cervo abbagliato
dai fari di una macchina " ,gli dice a un certo punto la ragazza dei
suoi sogni ). Emigrato a Los Angeles per lavorare con uno zio materno
che fa , con successo, l'agente cinematografico, si innamora, riamato,
di Vonnie, la segretaria dello zio di cui la ragazza è segretamente
l'amante. Qui Allen , che tante volte ci ha dato gustosi ritrattini
della nascita del sentimento amoroso, ha la mano particolarmente felice
nel descrivere le emozioni e gli impacci del giovane spasimante
inesperto. La vecchia abusata formula di " un ragazzo incontra una
ragazza " su cui si fondano tre quarti delle storie cinematografiche di
questo mondo riceve nuova linfa in chiave delicatamente tenera ed
ironica, come se non fosse un tema su cui è diventato difficile
scrivere o mostrare qualcosa di nuovo. Merito degli attori, ma anche
dello sceneggiatore -regista Allen che imprime sapientemente un ritmo e
una risonanza originale alle sequenze in cui si sviluppa la " love
story" all'ombra degli studios hollywoodiani ( pretesto, a loro volta,
per una gustosa rievocazione degli ambienti ricchi e sofisticati in cui
veleggiavano i cinematografari di quel tempo ).
Alle corte . La
storia del giovane e di Vonnie prende una brutta piega perchè lei
sceglie di interrompere la relazione con lui e di sposare il suo più
maturo amante , che nel frattempo si è deciso a lasciare la moglie.
Sconfortato, incapace di mettersi contro lo zio e di salvare così il suo
sogno d'amore, il giovane torna a New York e si mette in affari col
fratello ( un poco di buono che sta salendo tutti i gradini di una bella
carriera criminale ).Diventato proprietario di un locale notturno di
grande successo, sposatosi con una bella ragazza che gli da un figlio,
il nostro eroe potrebbe dirsi piattamente soddisfatto, ben inserito nel
tran tran di quella ricca e spensierata" café society " che dà il
titolo al film. Ma il destino ( o il libero arbitrio ? ) ha ancora un
tiro da giocargli . Intendo dire, cioè, la ripresa del legame ( questa
volta " banalmente " adulterino ) con Vonnie che , soggiornando a New
York , riaccende il suo immaginario erotico-sentimentale e rischia di
trasformarlo in un " borghese piccolo piccolo ", tutto lavoro,casa e
amante. Il film finisce senza che sia dato capire se il protagonista si
assueferà a questo " arrangiamento " o non deciderà piuttosto di
troncare nuovamente la relazione con Vonnie, complice la nuova
gravidanza della moglie alla quale è , in fondo, profondamente legato.
Finale aperto , dunque ( al cinema sono i più belli... ) che ci lascia
con un saporo amarognolo, un vago sentimento di malinconia ma la
sensazione di aver assistito ad una storia molto , molto ben raccontata,
con personaggi accattivanti,tutt'altro che originali ma serviti in
modo non banale. La malinconia , il gusto agrodolce che assume la
vicenda non sono elementi puramente esteriori, derivanti cioè solo
dagli sviluppi di quest'ultima e dalla affettuosa rievocazione di un
mondo che non c'è più. Derivano invece, come dicevo all'inizio, dal
robusto " sottotesto " della storia narrata da Allen. La nostra stessa
vita, egli sembra dirci ancora una volta, è regolata ( o non piuttosto
"sregolata " ? ) dal caso , dal destino, ma anche dalle nostre scelte :
innamorarsi, condurre oppure no una vita onesta, fare o non fare del
male al prossimo ( il fratello gangster del protagonista ), ingannare o
essere leali verso le persone che ci vogliono bene. Sono, come sempre ,
questioni morali con le quali non si scherza. La vita può essere molto
piacevole e, alla fine , gli uomini e le donne possono anche
acconciarsi ad una esistenza basata sull'effimero, sul piacere
momentaneo ( la " café society, appunto ). E non è detto- sembra
implicare Allen- che proprio questo non possa essere il segreto di
una vita blandamente felice, unico antidoto alla paura della morte con
la quale tutti, prima o poi, dobbiamo fare i conti. Ma, conclude il
regista, proprio la certezza della fine della nostra esistenza,il
comune destino che ci attende, avvolge in un alone di malinconico "
eroismo " le nostre banalissime vicende, tristi o serene che siano, e le
redime consegnandole all'eternità .
Che sia questo il " senso "
del film, ma preferisco dire il sottile fascino che esso irradia verso
lo spettatore, lo mostra chiaramente l'ultima sequenza. Il protagonista
sembra riflettere sulla sua situazione, incerto tra il grande amore
ritrovato e l'affetto per la moglie che gli sta per dare un nuovo
figlio. In fondo ,immaginiamo, potrebbe anche decidere di non fare
nessuna scelta e di accettare l'uno e l'altro. E la dissolvenza
incrociata che invade con due bellissimi primi piani lo schermo ( con il
volto sorridente di Vonnie prima e poi del protagonista, estatico e
pensieroso ) potrebbe lasciarci immaginare che la relazione con la
ragazza non finirà tanto presto. Ma il giovane, nell'ultima inquadratura
dà le spalle alla macchina da presa, cioè a noi e sembra fissare,
affascinato, il riquadro luminoso sul palco del suo locale, fatto di
tante piccole lampadine che , al termine della serata, stanno per
spegnersi ad una ad una. Prima ancora, il film termina, lo schermo si
riempie di buio e il regista sembra questa volta affidare allo
spettatore stesso un'ultima meditazione sulla vita, costellata di
tante gioie e di momenti felici ma confrontata alla sua inevitabile
caducità.
Woody Allen , con " Café society ", non solo ci ha dato
il suo film più maturo e lineare degli ultimi anni. Ci ha gratificati
con una "scrittura" cinematografica molto convincente. Il ritmo , il
susseguirsi delle sequenze, è veloce, brillante e mai banale,
punteggiato da una musica jazz d'epoca non invadente ma funzionale alla
vicenda. La fotografia, del grande Vittorio Storaro, è sontuosa e
pienamente aderente all'atmosfera complessiva. Ma, soprattutto, Allen sa
dove posizionare la macchina da presa , quali movimenti farle fare ,
come inquadrare i suoi personaggi, in modo che le immagini, prima ancora
che i dialoghi ( scoppiettanti e spiritosi ) facciano progredire la
vicenda e le conferiscano quel sottile fascino malinconico che , da " Io
ed Annie " e " Manhattan " è il marchio di fabbrica dei suoi prodotti
di alto artigianato. Sono uscito dal cinema, al termine della
proiezione, felice ed intenerito . L'autunno avanza, a Milano come credo
a New York. Ma l'albero dal quale Woody trae la sua ispirazione non ha
ancora perso tutte le sue foglie
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