lunedì 24 ottobre 2016

" Café society " di Woody Allen ( USA, 2016 )

Quando arriva l' autunno, l'appuntamento con Woody Allen al cinema è di rigore. Dal 1970, o giù di lì, sono almeno una cinquantina i film che il prolifico regista
ha diretto e - fino a qualche anno fa- quasi sempre interpretato. Da qualche tempo a questa parte, complice ( è sull'ottantina) il naturale invecchiamento, ha smesso di apparire sullo schermo con nostro grande rimpianto. Non che i suoi film che non lo vedano nel cast siano meno interessanti o riusciti degli altri. Tutt'altro. A mio avviso, "L'altra donna " ( con una sontuosa Gena Rowlands affiancata a Mia Farrow ) e soprattutto " Match point " rimangono , ancorchè lui non vi reciti ,tra i suoi capolavori assoluti. Ma, certo, lo stranulato e inconfondibile sguardo di Woody, la sua recitazione tutta " in diminuendo ", fatta di pochi ma indovinati gag visivi, le sue battute fulminanti, costituivano un efficacissimo " plus " che non ci saremmo mai stancati di apprezzare.
La sua ultima fatica, sotto una apparenza lieve e leggermente svagata, ha uno spessore e una profondità che , se devo essere sincero, non riconoscevo sempre facilmente nelle opere più recenti. Intendiamoci. Vedere uno degli ultimi sei o sette film di Allen è sempre un'esperienza piacevole. Pochi autori di commedie ( il genere da lui maggiormente frequentato ) sanno essere altrettanto intelligenti e garbatamente irriverenti, oltre che raffinati e formalmente perfetti. Ma , a volte, terminata la proiezione, non rimane molto di più nel nostro ricordo. Il film, insomma, non torna ad aleggiare nella nostra mente e non riscalda i nostri cuori : abbiamo attraversato un'esperienza gradevole ma poco incisiva, che non dà esca al nostro immaginario e non " fermenta " dentro di noi.Non è tanto una questione di ripetitività- egli è accusato spesso di raccontare , in fondo, sempre la stessa storia con personaggi più o meno identici- quanto di assenza talvolta di un " sottotesto ", di una dimensione cioè che oltrepassi la semplice trama e che dia a tutto il film vigore e sostanza . Non pretendo, badate bene, che Allen ci offra un " messaggio ", cioè una " morale " delle storie che racconta e che , come talvolta succede al cinema, rischierebbe magari di rimanere esterna alle forme, cioè all'essenziale, di cui è fatta ogni opera , bella o brutta , intelligente o stupida che sia. Ma - come mi succede ogni volta che ricado nell'antico " vizio " di guardare delle ombre che si muovono su uno schermo- mi aspetto che l'autore mi emozioni, mi commuova , mi faccia pensare, attraverso la capacità evocativa delle immagini che scorrono davanti ai miei occhi.
La storia è semplice, quasi esile nella sua voluta essenzialità. Il nostro giovane protagonista- siamo intorno al 1935- è ancora una volta un ebreo newyorchese, in fondo un Woody Allen più giovane di quasi mezzo secolo, più in bello ma egualmente timido, speranzoso , dallo sguardo eternamente stupito e pieno di emozione ( " sembri un cervo abbagliato dai fari di una macchina " ,gli dice a un certo punto la ragazza dei suoi sogni ). Emigrato a Los Angeles per lavorare con uno zio materno che fa , con successo, l'agente cinematografico, si innamora, riamato, di Vonnie, la segretaria dello zio di cui la ragazza è segretamente l'amante. Qui Allen , che tante volte ci ha dato gustosi ritrattini della nascita del sentimento amoroso, ha la mano particolarmente felice nel descrivere le emozioni e gli impacci del giovane spasimante inesperto. La vecchia abusata formula di " un ragazzo incontra una ragazza " su cui si fondano tre quarti delle storie cinematografiche di questo mondo riceve nuova linfa in chiave delicatamente tenera ed ironica, come se non fosse un tema su cui è diventato difficile scrivere o mostrare qualcosa di nuovo. Merito degli attori, ma anche dello sceneggiatore -regista Allen che imprime sapientemente un ritmo e una risonanza originale alle sequenze in cui si sviluppa la " love story" all'ombra degli studios hollywoodiani ( pretesto, a loro volta, per una gustosa rievocazione degli ambienti ricchi e sofisticati in cui veleggiavano i cinematografari di quel tempo ).
Alle corte . La storia del giovane e di Vonnie prende una brutta piega perchè lei sceglie di interrompere la relazione con lui e di sposare il suo più maturo amante , che nel frattempo si è deciso a lasciare la moglie. Sconfortato, incapace di mettersi contro lo zio e di salvare così il suo sogno d'amore, il giovane torna a New York e si mette in affari col fratello ( un poco di buono che sta salendo tutti i gradini di una bella carriera criminale ).Diventato proprietario di un locale notturno di grande successo, sposatosi con una bella ragazza che gli da un figlio, il nostro eroe potrebbe dirsi piattamente soddisfatto, ben inserito nel tran tran di quella ricca e spensierata" café society " che dà il titolo al film. Ma il destino ( o il libero arbitrio ? ) ha ancora un tiro da giocargli . Intendo dire, cioè, la ripresa del legame ( questa volta " banalmente " adulterino ) con Vonnie che , soggiornando a New York , riaccende il suo immaginario erotico-sentimentale e rischia di trasformarlo in un " borghese piccolo piccolo ", tutto lavoro,casa e amante. Il film finisce senza che sia dato capire se il protagonista si assueferà a questo " arrangiamento " o non deciderà piuttosto di troncare nuovamente la relazione con Vonnie, complice la nuova gravidanza della moglie alla quale è , in fondo, profondamente legato.
Finale aperto , dunque ( al cinema sono i più belli... ) che ci lascia con un saporo amarognolo, un vago sentimento di malinconia ma la sensazione di aver assistito ad una storia molto , molto ben raccontata, con personaggi accattivanti,tutt'altro che originali ma serviti in modo non banale. La malinconia , il gusto agrodolce che assume la vicenda non sono elementi puramente esteriori, derivanti cioè solo dagli sviluppi di quest'ultima e dalla affettuosa rievocazione di un mondo che non c'è più. Derivano invece, come dicevo all'inizio, dal robusto " sottotesto " della storia narrata da Allen. La nostra stessa vita, egli sembra dirci ancora una volta, è regolata ( o non piuttosto "sregolata " ? ) dal caso , dal destino, ma anche dalle nostre scelte : innamorarsi, condurre oppure no una vita onesta, fare o non fare del male al prossimo ( il fratello gangster del protagonista ), ingannare o essere leali verso le persone che ci vogliono bene. Sono, come sempre , questioni morali con le quali non si scherza. La vita può essere molto piacevole e, alla fine , gli uomini e le donne possono anche acconciarsi ad una esistenza basata sull'effimero, sul piacere momentaneo ( la " café society, appunto ). E non è detto- sembra implicare Allen- che proprio questo non possa essere il segreto di una vita blandamente felice, unico antidoto alla paura della morte con la quale tutti, prima o poi, dobbiamo fare i conti. Ma, conclude il regista, proprio la certezza della fine della nostra esistenza,il comune destino che ci attende, avvolge in un alone di malinconico " eroismo " le nostre banalissime vicende, tristi o serene che siano, e le redime consegnandole all'eternità .
Che sia questo il " senso " del film, ma preferisco dire il sottile fascino che esso irradia verso lo spettatore, lo mostra chiaramente l'ultima sequenza. Il protagonista sembra riflettere sulla sua situazione, incerto tra il grande amore ritrovato e l'affetto per la moglie che gli sta per dare un nuovo figlio. In fondo ,immaginiamo, potrebbe anche decidere di non fare nessuna scelta e di accettare l'uno e l'altro. E la dissolvenza incrociata che invade con due bellissimi primi piani lo schermo ( con il volto sorridente di Vonnie prima e poi del protagonista, estatico e pensieroso ) potrebbe lasciarci immaginare che la relazione con la ragazza non finirà tanto presto. Ma il giovane, nell'ultima inquadratura dà le spalle alla macchina da presa, cioè a noi e sembra fissare, affascinato, il riquadro luminoso sul palco del suo locale, fatto di tante piccole lampadine che , al termine della serata, stanno per spegnersi ad una ad una. Prima ancora, il film termina, lo schermo si riempie di buio e il regista sembra questa volta affidare allo spettatore stesso un'ultima meditazione sulla vita, costellata di tante gioie e di momenti felici ma confrontata alla sua inevitabile caducità.
Woody Allen , con " Café society ", non solo ci ha dato il suo film più maturo e lineare degli ultimi anni. Ci ha gratificati con una "scrittura" cinematografica molto convincente. Il ritmo , il susseguirsi delle sequenze, è veloce, brillante e mai banale, punteggiato da una musica jazz d'epoca non invadente ma funzionale alla vicenda. La fotografia, del grande Vittorio Storaro, è sontuosa e pienamente aderente all'atmosfera complessiva. Ma, soprattutto, Allen sa dove posizionare la macchina da presa , quali movimenti farle fare , come inquadrare i suoi personaggi, in modo che le immagini, prima ancora che i dialoghi ( scoppiettanti e spiritosi ) facciano progredire la vicenda e le conferiscano quel sottile fascino malinconico che , da " Io ed Annie " e " Manhattan " è il marchio di fabbrica dei suoi prodotti di alto artigianato. Sono uscito dal cinema, al termine della proiezione, felice ed intenerito . L'autunno avanza, a Milano come credo a New York. Ma l'albero dal quale Woody trae la sua ispirazione non ha ancora perso tutte le sue foglie

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