Quando si trae un film da un romanzo o da una pièce teatrale, spostare la vicenda in un'epoca diversa da quella dell'originale è sempre operazione discutibile. Cioè, che va discussa e analizzata, caso per caso, al fine di giudicarne la " liceità " logica ed artistica e valutare quindi se sia compatibile con il significato dell'opera da cui il film prende le mosse. Precisiamo subito un punto. Laddove l'opera originaria costituisca poco più di una mera fonte di ispirazione per un film che si sviluppi poi in modo del tutto autonomo, situare la trama che ne è al centro in un contesto temporale differente è in fondo poco rilevante. Quante opere cinematografiche sono debitrici (magari senza nemmeno menzionarli ) di illustri o sconosciuti " canovacci ", classici o contemporanei, per via di uno spunto di partenza o per un determinato personaggio o ancora per un semplice snodo narrativo. Non si finirebbe più di citarle. E li', a dire il vero, le modifiche e le libertà, anche temporali, che si sono prese soggettisti, sceneggiatori e registi non ci turbano più di tanto. Quando invece il film si vuole la più o meno fedele riduzione o illustrazione del proprio " precedente ", letterario o teatrale , mi pare che le cose cambino. La trasposizione temporale, il passaggio da un'epoca all'altra, deve trovare infatti una giustificazione " interna " al film stesso; deve non solo preservare il significato dell' originale da cui questo è tratto ma anche essere capace di conferire una nuova e più interessante prospettiva alla vicenda che ne è al cuore. Mostrare " Amleto " in abiti moderni ( lo si è fatto spesso anche in teatro ) non deve essere, in buona sostanza, solo una simpatica trovata esterna per "togliere un pò di polvere ai classici", come teorizzato da alcuni scioccherelli. Deve farci capire, più in profondità, che il triste principe di Danimarca è realmente un nostro contemporaneo e che le passioni, i dubbi e i conflitti che si agitano alla corte di Elsinore ci toccano ancora da vicino, come se si svolgessero oggi.
Questa premessa non mi pare inutile introducendo il bel film di Christian Petzold, " La donna dello scrittore ",da poco sui nostri schermi dopo aver riportato un certo successo di critica e di pubblico , la scorsa primavera , alla " Berlinale " , il Festival cinematografico che si tiene ogni anno nella capitale tedesca. E tedesco è il regista ( non più giovanissimo , Petzold è arrivato tardi al successo, in questi ultimi anni, con film quali " Barbara " e " Phoenix " che in Italia, peraltro, si sono visti poco ) come tedeschi ne sono gli interpreti e tedesco è il romanzo da cui è tratto, " Transit " di Anna Seghers, scritto nel 1942. Ambientato durante la seconda guerra mondiale, con le truppe del Terzo Reich che stavano occupando l'intera Francia e dando la caccia, aiutate dalla zelante polizia di Vichy, ad ebrei e dissidenti politici di tutte le nazionalità, è un'opera certamente politica ( l'autrice era una militante comunista e, dopo la guerra, andò volontariamente a stabilirsi nella DDR ) ma ha anche altri obiettivi, quale quello di indagare i meccanismi psicologici che entrano in gioco in persone , come i protagonisti, che fuggono da sè stessi, dalle loro vite passate, prima ancora che dai loro persecutori. Sostituzioni di persona, finzioni di ogni sorta, nella vicenda si intrecciano con la realtà e con echi di vite vissute o semplicemente sognate : come in un complicato gioco di scatole cinesi in cui, aprendone una, si entra in un'altra vicenda ma senza mai lasciare quella precedente. Un puzzle, insomma, di cui (complice una sceneggiatura a tratti non perfetta ) non è semplicissimo venire a capo ma di costante suggestione stilistica grazie ad una regia salda ancorchè apprezzabilmente discreta e ad una interpretazione di prim'ordine. E qui mi ricollego, chiarendone il motivo, a quanto osservavo prima sui film che, tratti da un'opera letteraria, modificano l'epoca in cui si svolge la vicenda. Petzold e i suoi sceneggiatori hanno deciso infatti di trasferire ai giorni nostri questa storia di aspiranti transfughi in un' Europa sconvolta dalla guerra . Sono rimasti come nel romanzo ( evocati nei dialoghi , anche se non si vedono mai ) i nazisti ; e ben presente, anzi visibile, permane la caccia agli " indesiderati " ( ebrei e sovversivi, come ieri,e in più, oggi, migranti clandestini ). Ma l'ambientazione- all'inizio siamo a Parigi e poi l'azione si sposta a Marsiglia - è assolutamente attuale, con edifici, interni di alberghi ed abitazioni, uffici, a noi del tutto familiari, automobili odierne, abbigliamento dei personaggi in linea con le moderne fogge di vestiario. Questo, lungi dall'apparire arbitrario, o un tradimento dello spirito del romanzo, rende ancora più interessante ed angosciosa la vicenda, dilatandone la portata. Persone in fuga, che cercano disperatamente di emigrare verso paesi ritenuti più sicuri ( nel romanzo e nel film il Messico , dove effettivamente la Seghers si rifugiò durante la guerra ) ce ne sono sempre state nella Storia. Nella nostra apparentemente tranquilla Europa, mostrarci persone, nostri concittadini o comunque esseri umani, perseguitati ed inseguiti dalla brutalità di un potere che non ammette dissenso ci manda un sottile brivido nella schiena, ci induce a pensare che ciò che è successo una volta non è detto che non torni purtroppo a manifestarsi.Trasportando la vicenda del romanzo nell'epoca attuale, Petzold ci ha risparmiato l'ennesimo, scontatissimo film " retro " sulle violenze naziste e ci ha offerto invece un inquietante apologo, adatto ad ogni epoca, sulla repressione istituzionale che, all'improvviso, può spietatamente colpirci.
Dicevamo della regia di Petzold, che supplisce anche ad una sceneggiatura un pò contorta (va bene che la storia è complicata, ma il " trattamento " dovrebbe servire a renderla più intellegibile, o sbaglio ? ). Curioso ma non nuovo questo fenomeno. Ottimi registi che vogliono scriversi le sceneggiature da sè anche quando, palesemente, non possediono tutte le capacità che ci vogliono: ricordarsi di maestri quali Hitchcock o Wilder che pur avendo un passato da sceneggiatori ricorrevano spesso ad un esperto del mestiere per le storie dei loro film. Se Petzold è uno sceneggiatore claudicante ( l'inizio de " La donna dello scrittore " è quanto mai confuso e la vicenda stenta a decollare ) è peraltro davvero un ottimo regista. Certe atmosfere, certi stati d'animo che si penserebbe siano più facili da stendere sulla carta che da incorporare nelle fugaci ombre che passano sullo schermo ( l'attesa senza evidenti prospettive di uno dei personaggi in un piccolo caffè, la sensazione di minaccia o di incertezza che grava su alcune sequenze ) sono resi con tocchi sapienti, mano ferma e tratto equilibrato. Si sente un'origine teatrale o quanto meno una dimestichezza con il palcoscenico che consente al regista di creare, nel film, momenti di sospensione drammatica che gli conferiscono, a tratti, una non banale dimensione irrealistica, capace di riscattare quel lato inevitabilmente didascalico insito in tanto cinema ( e teatro ) politico. Aiuta non poco a stabilire questo clima di vago irrealismo ( che non sottrae peraltro alla vicenda nessuno dei significati civili o psicologici cui essa si presta ) l'uso della voce narrante fuori campo. Un espediente spesso irritante cui fanno talvolta ricorso sceneggiatori e registi a corto di soluzioni " visive " per determinate situazioni e che si limitano ad enunciare oralmente e dall'esterno ciò che ci saremmo attesi fosse da essi espresso interamente in immagini e dialoghi diretti. Ma che qui , invece, mi pare un fortunato "congegno " capace di distanziare la vicenda, accentuandone ulteriormente la dimensione di apologo ed imprimendole quasi sfumature oniriche.
Accennavamo alla recitazione, che in un film del genere acquista grande importanza e rischierebbe, ove non all'altezza, di sciupare l'impresa irrimediabilmente. Il protagonista maschile, già collaboratore di Petzold in precedenti progetti, Ferenc Ragowski, conferisce al suo personaggio, solo con l'espressività del volto e la misura dei gesti, il mistero, la fragilità e la forza di un eterno fuggiasco. La " donna dello scrittore " , il principale personaggio femminile, è interpretato benissimo da Paula Beer, già ammirata un paio d'anni or sono in "Frantz " di Ozon. Ecco una giovanissima attrice ( 23 anni ) che è già uno dei punti fermi del cinema europeo, capace di passare dal registro romantico-elegiaco a quello fortemente drammatico senza perdere nulla della sua duttilità ed intelligenza espressiva.
Un'ultima osservazione. Il titolo del film è nell'originale, quello del libro : " Transit " ("transito", il semplice passaggio attraverso una frontiera di persone e cose che debbono proseguire verso una ulteriore valico di confine ) ed è un bel titolo perchè sta anche a significare la condizione " transeunte " che è propria dell'umanità ). Quello italiano non poteva essere lo stesso perchè , pochi anni fa, sembra sia stato proiettato da noi altro film straniero con identico titolo. Ecco quindi, ancora una volta, il ricorso all'inventiva dei nostri amati distributori ( questa volta davvero a corto di fantasia ) senza nemmeno sui manifesti e negli altri annunci pubblicitari, tra parentesi, magari piccolo piccolo, il titolo originario che i meno distratti avrebbero potuto ricollegare al bel film proiettato al Festival di Berlino e di cui avevano parlato bene anche i giornali italiani : per un nuovo capitoletto del trattatello " Come farsi del male da soli ", ispirato con tutta evidenza alla crescente latitanza del pubblico dalle sale cinematografiche italiane, anche quello, voglio dire, meglio disposto a vedere film di qualità se solo gli venissero annunciati e presentati in maniera decente...
Questa premessa non mi pare inutile introducendo il bel film di Christian Petzold, " La donna dello scrittore ",da poco sui nostri schermi dopo aver riportato un certo successo di critica e di pubblico , la scorsa primavera , alla " Berlinale " , il Festival cinematografico che si tiene ogni anno nella capitale tedesca. E tedesco è il regista ( non più giovanissimo , Petzold è arrivato tardi al successo, in questi ultimi anni, con film quali " Barbara " e " Phoenix " che in Italia, peraltro, si sono visti poco ) come tedeschi ne sono gli interpreti e tedesco è il romanzo da cui è tratto, " Transit " di Anna Seghers, scritto nel 1942. Ambientato durante la seconda guerra mondiale, con le truppe del Terzo Reich che stavano occupando l'intera Francia e dando la caccia, aiutate dalla zelante polizia di Vichy, ad ebrei e dissidenti politici di tutte le nazionalità, è un'opera certamente politica ( l'autrice era una militante comunista e, dopo la guerra, andò volontariamente a stabilirsi nella DDR ) ma ha anche altri obiettivi, quale quello di indagare i meccanismi psicologici che entrano in gioco in persone , come i protagonisti, che fuggono da sè stessi, dalle loro vite passate, prima ancora che dai loro persecutori. Sostituzioni di persona, finzioni di ogni sorta, nella vicenda si intrecciano con la realtà e con echi di vite vissute o semplicemente sognate : come in un complicato gioco di scatole cinesi in cui, aprendone una, si entra in un'altra vicenda ma senza mai lasciare quella precedente. Un puzzle, insomma, di cui (complice una sceneggiatura a tratti non perfetta ) non è semplicissimo venire a capo ma di costante suggestione stilistica grazie ad una regia salda ancorchè apprezzabilmente discreta e ad una interpretazione di prim'ordine. E qui mi ricollego, chiarendone il motivo, a quanto osservavo prima sui film che, tratti da un'opera letteraria, modificano l'epoca in cui si svolge la vicenda. Petzold e i suoi sceneggiatori hanno deciso infatti di trasferire ai giorni nostri questa storia di aspiranti transfughi in un' Europa sconvolta dalla guerra . Sono rimasti come nel romanzo ( evocati nei dialoghi , anche se non si vedono mai ) i nazisti ; e ben presente, anzi visibile, permane la caccia agli " indesiderati " ( ebrei e sovversivi, come ieri,e in più, oggi, migranti clandestini ). Ma l'ambientazione- all'inizio siamo a Parigi e poi l'azione si sposta a Marsiglia - è assolutamente attuale, con edifici, interni di alberghi ed abitazioni, uffici, a noi del tutto familiari, automobili odierne, abbigliamento dei personaggi in linea con le moderne fogge di vestiario. Questo, lungi dall'apparire arbitrario, o un tradimento dello spirito del romanzo, rende ancora più interessante ed angosciosa la vicenda, dilatandone la portata. Persone in fuga, che cercano disperatamente di emigrare verso paesi ritenuti più sicuri ( nel romanzo e nel film il Messico , dove effettivamente la Seghers si rifugiò durante la guerra ) ce ne sono sempre state nella Storia. Nella nostra apparentemente tranquilla Europa, mostrarci persone, nostri concittadini o comunque esseri umani, perseguitati ed inseguiti dalla brutalità di un potere che non ammette dissenso ci manda un sottile brivido nella schiena, ci induce a pensare che ciò che è successo una volta non è detto che non torni purtroppo a manifestarsi.Trasportando la vicenda del romanzo nell'epoca attuale, Petzold ci ha risparmiato l'ennesimo, scontatissimo film " retro " sulle violenze naziste e ci ha offerto invece un inquietante apologo, adatto ad ogni epoca, sulla repressione istituzionale che, all'improvviso, può spietatamente colpirci.
Dicevamo della regia di Petzold, che supplisce anche ad una sceneggiatura un pò contorta (va bene che la storia è complicata, ma il " trattamento " dovrebbe servire a renderla più intellegibile, o sbaglio ? ). Curioso ma non nuovo questo fenomeno. Ottimi registi che vogliono scriversi le sceneggiature da sè anche quando, palesemente, non possediono tutte le capacità che ci vogliono: ricordarsi di maestri quali Hitchcock o Wilder che pur avendo un passato da sceneggiatori ricorrevano spesso ad un esperto del mestiere per le storie dei loro film. Se Petzold è uno sceneggiatore claudicante ( l'inizio de " La donna dello scrittore " è quanto mai confuso e la vicenda stenta a decollare ) è peraltro davvero un ottimo regista. Certe atmosfere, certi stati d'animo che si penserebbe siano più facili da stendere sulla carta che da incorporare nelle fugaci ombre che passano sullo schermo ( l'attesa senza evidenti prospettive di uno dei personaggi in un piccolo caffè, la sensazione di minaccia o di incertezza che grava su alcune sequenze ) sono resi con tocchi sapienti, mano ferma e tratto equilibrato. Si sente un'origine teatrale o quanto meno una dimestichezza con il palcoscenico che consente al regista di creare, nel film, momenti di sospensione drammatica che gli conferiscono, a tratti, una non banale dimensione irrealistica, capace di riscattare quel lato inevitabilmente didascalico insito in tanto cinema ( e teatro ) politico. Aiuta non poco a stabilire questo clima di vago irrealismo ( che non sottrae peraltro alla vicenda nessuno dei significati civili o psicologici cui essa si presta ) l'uso della voce narrante fuori campo. Un espediente spesso irritante cui fanno talvolta ricorso sceneggiatori e registi a corto di soluzioni " visive " per determinate situazioni e che si limitano ad enunciare oralmente e dall'esterno ciò che ci saremmo attesi fosse da essi espresso interamente in immagini e dialoghi diretti. Ma che qui , invece, mi pare un fortunato "congegno " capace di distanziare la vicenda, accentuandone ulteriormente la dimensione di apologo ed imprimendole quasi sfumature oniriche.
Accennavamo alla recitazione, che in un film del genere acquista grande importanza e rischierebbe, ove non all'altezza, di sciupare l'impresa irrimediabilmente. Il protagonista maschile, già collaboratore di Petzold in precedenti progetti, Ferenc Ragowski, conferisce al suo personaggio, solo con l'espressività del volto e la misura dei gesti, il mistero, la fragilità e la forza di un eterno fuggiasco. La " donna dello scrittore " , il principale personaggio femminile, è interpretato benissimo da Paula Beer, già ammirata un paio d'anni or sono in "Frantz " di Ozon. Ecco una giovanissima attrice ( 23 anni ) che è già uno dei punti fermi del cinema europeo, capace di passare dal registro romantico-elegiaco a quello fortemente drammatico senza perdere nulla della sua duttilità ed intelligenza espressiva.
Un'ultima osservazione. Il titolo del film è nell'originale, quello del libro : " Transit " ("transito", il semplice passaggio attraverso una frontiera di persone e cose che debbono proseguire verso una ulteriore valico di confine ) ed è un bel titolo perchè sta anche a significare la condizione " transeunte " che è propria dell'umanità ). Quello italiano non poteva essere lo stesso perchè , pochi anni fa, sembra sia stato proiettato da noi altro film straniero con identico titolo. Ecco quindi, ancora una volta, il ricorso all'inventiva dei nostri amati distributori ( questa volta davvero a corto di fantasia ) senza nemmeno sui manifesti e negli altri annunci pubblicitari, tra parentesi, magari piccolo piccolo, il titolo originario che i meno distratti avrebbero potuto ricollegare al bel film proiettato al Festival di Berlino e di cui avevano parlato bene anche i giornali italiani : per un nuovo capitoletto del trattatello " Come farsi del male da soli ", ispirato con tutta evidenza alla crescente latitanza del pubblico dalle sale cinematografiche italiane, anche quello, voglio dire, meglio disposto a vedere film di qualità se solo gli venissero annunciati e presentati in maniera decente...
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