martedì 13 novembre 2018

" SENZA LASCIARE TRACCIA " di Debra Granik ( USA, 2018 )

Dapprincipio lo schermo è interamente occupato, in primo piano e in campo medio, da immagini di una natura rigogliosa e suggestiva (fogliame, fiori selvatici, insetti , farfalle, riflessi di luce tra gli alberi ad alto fusto di una foresta che scopriremo poi trovarsi nell' Oregon, nel Nord Ovest degli Stati Uniti d' America ). Una natura semi-selvaggia, apparentemente inviolata e certamente poco popolata giacchè, nel silenzio circostante, udiamo distintamente i suoi suoni, lo stormire delle fronde, i versi del variegato regno animale che la abita . Ma presto, nel paesaggio, identifichiamo anche  due figure umane che si muovono rapide e  circospette, come se si sentissero spiate o incalzate da un invisibile avversario. Un uomo sui quaranta- cinquanta, barbuto, dall'aspetto trasandato, ma agile e a suo agio sui sentieri e sulle balze sulle quali si inerpica cambiando spesso direzione, accompagnato o meglio seguito non senza qualche difficoltà da una ragazzina sui tredici-quattordici anni, anche lei, come l'uomo, in abbigliamento da escursionista, sacco in spalla, atteggiamento cauto . Si direbbero due gitanti che hanno smarrito il loro itinerario prefissato. Oppure, due persone in fuga, da chi o da che cosa non sappiamo. Ci rendiamo  conto che  i due non sono visitatori occasionali quando li vediamo raggiungere una sorta di campo-base che hanno eletto come domicilio almeno temporaneo, visto che vi consumano un pasto frugale a base di alimenti raccolti nella stessa foresta e vi riposano la notte, avvolti nei loro sacchi a pelo, uno accanto all'altra. Presto ci accorgiamo anche che la ragazzina chiama l'uomo " papà ", il che toglie  qualche dubbio sul loro rapporto ma non ci fa ancora avanzare nel capire perchè essi vivano nella foresta, vedremo poi  situata solo a poche miglia da Portland, andando in città solo per qualche obbligata incursione, come rifornirsi in un supermercato,  ma sempre muovendosi a piedi, transfughi probabilmente da una civiltà urbana e da un consorzio umano dal quale vivono ormai separati.

Quelle che ho appena descritto sono solo le scene iniziali del bellissimo film di una cineasta americana indipendente, appena al suo terzo lungometraggio ma già da considerarsi una voce fondamentale nel cinema di questi ultimi anni. Debra Granik è il suo nome e qualcuno  ne ricorderà, sette-otto anni fa, almeno il precedente film " Un gelido inverno " ( "Winter's bone")  ambientato egualmente nelle zone impervie e semispopolate di quella multiforme realtà che è costituita dagli USA. Questo  "Senza lasciare traccia " (titolo originale " Leave no trace " ) è stato presentato la scorsa primavera a Cannes nella prestigiosa " Quinzaine des Réalisateurs " , che è a volte migliore della stessa selezione ufficiale in cui sono  inclusi i film che concorrono ai premi principali. Perchè un film " bellissimo ", appellativo spesso abusato ma mai come qui pienamente meritato ? Se è vero che un'opera cinematografica deve avere alla base, per dirsi compiutamente riuscita, un progetto " forte ", fatto di una o più idee interessanti verso cui coerentemente indirizzare il proprio sviluppo narrativo ed essere capace, nel contempo, di tradurre tutto ciò in forme visive di plastica evidenza, in un armonioso, convincente susseguirsi di immagini altrettanto robuste e tali da emozionarci ( e qui da commuoverci fino alle lagrime ) ebbene questo piccolo-grande film si candida senz'altro a diventare un'opera memorabile, che ogni amante del cinema dovrebbe vedere e rivedere. Senza ombra di dubbio una delle migliori, se non la migliore, di questi primi due, tre mesi di stagione cinematografica in Italia. E vediamo , più da vicino, perchè.

Il primo tema su cui ruota l'intero asse del film, quello più evidente,ed anche quello che Granik ha saputo meglio introiettare nella dinamica del film, è la contrapposizione tra natura ed artificio ( ricomprendendo tra le costruzioni " artificiali " la più antica storicamente tra queste, cioè la città, intesa come tentativo di addomesticare- o forse stuprare ? - la dimensione naturale che circonda l'uomo, fatta  di aria, di terra , di acqua, di vegetali, degli stessi animali che con l'uomo armoniosamente ne condividono lo spazio ). Da un lato, dunque, civiltà primigenia ed intoccata, alla quale l'uomo tenderebbe a tornare per ritrovare la perduta felicità e, dall'altro,  civiltà urbana,  "civilisation ", che sorta per appagare nuovi bisogni, spesso crea timore, ansia, insicurezza. Sappiamo quanto questo tema sia caro  alla cultura americana,  in letteratura da Emerson a Thoreau, a Mark Twain, nel cinema dei nostri giorni da Terrence Malick a Jeff Nichols, ed abbia spesso ispirato coloro , come Granik , che lo sentono fortemente e lo considerano, giustamente, un materiale drammatico di notevole spessore. Ma in " Senza lasciare traccia " un secondo tema, in parte parallelo al primo ed in parte sviluppantesi per linee proprie, si impone poi  con tutta evidenza. Ed è quello del contrasto tra la vita associata, le istituzioni e le formazioni sociali, la società insomma, e l'individuo il quale, per sfuggire al malessere che sempre di più avverte e che ritiene gli venga inflitto dai gruppi sociali che tendono a comprimere sempre maggiormente i suoi spazi di libertà, anela a liberarsi da qualunque vincolo e a tornare addirittura all'originario stato di natura. Sentimento fortissimo, oggi in particolare oltre Oceano  a causa anche, come vediamo nel film , degli eccessi dei poteri pubblici e relativa , disumanizzante, burocratizzazione che rischia di togliere spontaneità alla più semplice manifestazione della vita associata. E per restituire alla società il senso , il valore aggiunto che essa pur indubbiamente ha per lo stesso individuo, Granik ci descrive con immagini forti e davvero commoventi il principale motore che dovrebbe presiedere ad ogni aggregazione degli esseri umani : la fiducia reciproca e l'empatia (ma forse a quest' ultimo vocabolo così " moderno " personalmente sostituirei, nell'accezione più lata, la parola " amore ", cristiano, religioso o laico che sia  ) che  , da sole, attenuano e compongono i conflitti ed inducono alla fruttuosa,  scambievole cooperazione. Terzo ed ultimo tema " forte " di questo magnifico film, quello della famiglia, dei rapporti di sangue. Tom, la ragazzina del film, e suo padre Will appaiono uniti da un complesso legame di amore, di senso di responsabilità ma anche di sottile reciproca dipendenza e , quindi, di potere, che evolverà lungo tutto il film fino al momento culminante in cui esso sarà fatalmente messo alla prova. E ancora una volta la sceneggiatrice e regista Granik saprà affrontare artisticamente questo delicato snodo con  la sapienza, la forza e  la delicatezza  che riconoscevamo con emozione nel grande cinema  americano di sessanta-settant'anni fa, da John Ford a Nicholas Ray per fermarci solo a due degli autori che di empatia ( o della sua mancanza ) hanno intessuto le loro storie ed il loro cinema.

Opera polifonica, che tocca come abbiamo visto più temi e poggia su più moduli narrativi, "Senza lasciare traccia " è tenuto insieme da una poderosa sceneggiatura che ci dice solo quanto basta per capire storia e personaggi senza appesantire il racconto di troppe, inutili informazioni sui rispettivi retroterra. Si vede qui il frutto e della tradizione del grande cinema USA e, in tempi più vicini a noi, delle scuole di cinema che insegnano a scrivere e a costruire il film a partire da una storia semplice e scorrevole in tutti i suoi meccanismi.Ma il vero " asso nella manica " di questo film è nella regia della stessa Granik. Pudica, discreta ed equilibrata nelle scene di maggiore impatto emotivo, la scelta delle immagini e la direzione degli attori è morbida e forte al tempo stesso, in carattere con un film che fa dell'" understatement ", dell'allusione e del " non detto " il suo non tanto paradossale punto di forza. Per suggerire una situazione, una dimensione psicologica o sociale, a Granik bastano pochi tocchi delicati , senza mai salire sopra le righe , anche nei momenti più coinvolgenti e commoventi. Stante la " cifra " espositiva della regista, occorrevano qui interpreti di grande caratura e di espressività particolarmente immediata.Sono felicemente riuniti nelle persone  di un attore poco noto e  di secondo piano , qui letteralmente ispirato , Ben Foster ( Will, il padre ) e di una autentica,assai lodevole sorpresa , la giovanissima esordiente  Thomasin McKenzie ( Tom , la figlia ). Fotografia , molto importante, degnamente sontuosa specie nei numerosi esterni e musica all'altezza della situazione. In poche parole, l' America cinematografica al suo meglio.                                                                                                                 







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