Mentre la stagione cinematografica stenta ancora a decollare ( avrete visto, spero, almeno il bellissimo " Un affare di famiglia ", vincitore quest'anno a Cannes della Palma d'oro ) vorrei darvi conto degli altri quattro film che ho potuto personalmente valutare tra quelli arrivati a Milano, grazie alla rassegna " Le vie del cinema " , direttamente dalla " Mostra " di Venezia, senza cioè essere stati ancora immessi nel circuito commerciale. Prevedo comunque che tutti e quattro, anche se non ne conosco le date, arriveranno presto da noi. Dico questo per tranquillizzarvi e per non darvi l'impressione di ...perdere il vostro tempo leggendo recensioni di film che tanto non potrete mai vedere !
Il primo - lo dico subito per farvelo memorizzare fin d'ora - è un' autentica gemma che ci arriva dalla Cina, terra prodiga da almeno trent'anni a questa parte di grandi registi e di opere di grande interesse anche per chi , come me, conosce poco della cultura orientale. Si tratta dell'ultimo film di Zhang Yimou, uno dei migliori e stilisticamente originali autori che in questo periodo si sono divisi tra Pechino ed Hong Kong, cioè i due poli cinematografici della Cina continentale ( ci sono poi grandi registi a Taiwan che egualmente tengono alta la reputazione del cinema cinese ). Zhang Yimou aveva già vinto il Leone d'oro a Venezia nel 1999 con il commovente " Non uno di meno " ed è l'autore del celebre " Lanterne rosse " nonchè dell'intenso " Lettere di uno sconosciuto ", visto tre anni or sono, che precede proprio questo " L'ombra ", proiettato adesso a Venezia. Non so se sia solo una mia congettura ma il penultimo film del regista ( " Lettere... " , appena citato ) con la sua vicenda ambientata negli anni della " rivoluzione culturale " e perciò delicatissima, non deve essere troppo piaciuto negli ambienti ufficiali e quindi questa volta egli ha preferito collocare la storia al centro de " L'ombra " in un'epoca imprecisata , a metà tra un medioevo molto stilizzato e un mondo favolistico atemporale, consono alla cultura tradizionale del suo Paese.
La distanziazione operata da Zhang Yimou rispetto alla contemporaneità non toglie tuttavia che il film possa essere letto ancora una volta come un apologo sul potere totalitario e sulle basi su cui questo poggia: la violenza, l'inganno e la sopraffazione. Ma c'è molto altro in un film che pur durando due ore non annoia neanche un minuto, anzi sorprende continuamente in un caleidoscopio di immagini folgoranti, ora cruente, ora sensuali, ora piene di corrusca bellezza. Impossibile riassumere la trama di un film che è senza dubbio, a tratti, fin troppo " carico " e ricco di spunti figurativi suscettibili di dar vita ad almeno altre tre opere ma che riesce a mantenere, senza pericolosi cedimenti all'elemento puramente decorativo, una superba tensione interna fino allo scioglimento finale. Merito della regia, stilisticamente perfetta, sapiente ma fresca al tempo stesso. Un gran bel film , insomma, da non " sciupare ", voglio augurarmi, con un doppiaggio italiano che altererebbe il suono genuino e la musicalità del dialogo originale.
Tutt'altro discorso invece per un film che era egualmente molto atteso e che a Venezia aveva pur avuto i suoi estimatori. Parlo di " Les estivants " ( I villeggianti ) della franco-italiana ( o piuttosto italo-francese ) Valeria Bruni Tedeschi. Sì, la sorella maggiore di Carlà, già in Sarkozy, da tempo attrice di successo in Francia, dove vive da quando era adolescente,e saltuariamente anche in Italia ( " La balia " di Marco Bellocchio, " La pazza gioia " di Paolo Virzì ). Transitata dietro la macchina da presa (aspirazione di ogni interprete moderatamente ambizioso ) ha girato due o tre film di discreta fattura prima di questo, scrivendoli personalmente o aiutata, come in questo caso, dall'amica Noémie Lvoskj, anch'essa attrice, sceneggiatrice e regista. Detto che Valeria ( chiamiamola così ) è senza dubbio un esempio di intelligenza e di sensibilità, qualità messe più volte alla prova come attrice, occorrerà peraltro rilevare che le mancano la modestia ed il senso della misura che si addicono ad un regista ( quasi ) esordiente. Questo "Les estivants " , infatti, largamente e scopertamente autobiografico, sarebbe risultato sicuramente migliore tra qualche anno e soprattutto dopo qualche altro film di un maggiore spessore. Voglio dire che Fellini girò " Otto e mezzo " ( allora , come oggi nel film di Valeria , una " messa a nudo " di un regista che si interroga su sè stesso e sulla propria arte ) dopo " La strada " e " La Dolce vita ". Anche Woody Allen, per venire un pò più vicino ai nostri tempi, fece " Stardust memories " (film di riflessione sul cinema e sulle sensazioni e i ricordi che questo può evocare in chi ne fa la propria professione ) dopo " Annie Hall " e " Manhattan ", cioè due delle sue cose migliori. Valeria , invece, di strada ne deve fare ancora tanta e incominciare ora a raccontarsi e a meditare sul proprio cammino artistico ed esistenziale, anche se a 54 anni non è più una ragazzina, appare un tantino presuntuoso ed intempestivo. Tenuto conto, soprattutto, del fatto che le sue sensazioni, in definitiva il suo " privato ", rimane desolantemente tale per tre quarti del film, senza mai assurgere ad un significato che arrivi ad abbracciare non solo la sua esistenza ma, contemporaneamente, quella di chi la sta guardando ed ascoltando.Sembrano solo fatti suoi, si direbbe, che suscitano un blando interesse per le troppe allusioni alla sua vita personale di donna e di cineasta e , quel che più grave, non inducono quasi mai ad una immedesimazione o almeno un'empatia da parte dello spettatore. Peccato per lo sfoggio di attori impiegati in questo film ( da Pierre Arditi, peraltro terribilmente invecchiato e imbolsito, a Valeria Golino, qui goffa, imbruttita , l'ombra della bella e brava attrice che sappiamo, dalla stessa Noémie Lvoskj, sconciamente ingrassata, a Riccardo Scamarcio mai così afono ed insulso ). Tutti strumenti, in questa " sonata da camera " ambientata sulla Costa Azzurra, che non riescono ad accordarsi tra di loro e a produrre una musica armoniosa e gradevole. E peccato , anche, per le qualità e la simpatia del "personaggio " Bruni Tedeschi che Valeria ( sempre lei ... ) dovrebbe, come regista, porre saggiamente al servizio di qualche progetto più consistente ed articolato. Rimandata, quindi, alla prossima occasione.
Grandissima curiosità ed attesa vi era poi, a Milano come a Venezia, per una autentica chicca per cinefili incalliti. Parlo di " The other side of the wind " ( L'altro lato del vento ), l'ultimo film girato - ma rimasto incompiuto - da Orson Welles e mai montato e mostrato in pubblico sino ad oggi. Di esso si avevano scarse notizie e solo la pazienza di alcuni appassionati ha permesso di recuperarlo dove giaceva dimenticato e di consentire, tra il tanto materiale girato da Welles a partire dall'agosto del 1970, di tirarne fuori una versione abbastanza coerente anche se non sappiamo quanto fedele allo spirito con cui egli si era accinto all'impresa. Di fatto il film risulta un documento di un certo interesse sull'evoluzione che avrebbe probabilmente avuto il cinema di Welles se, dopo " Falstaff " ( che è del 1966 ) questi fosse riuscito a portare a termine almeno uno dei tanti progetti cui si dedicò in seguito, sino alla sua scomparsa. Ma è da chiedersi se, a parte i cinefili di cui si è detto e gli studiosi di Welles in particolare, il film possa realmente piacere ad un pubblico più vasto ed avere così una decorosa carriera commerciale. La risposta è probabilmente negativa ed è , a mio avviso, una ulteriore prova di quanto ho sempre sostenuto. Il cinema, a differenza delle arti figurative e della letteratura - dove l'abbozzo, il tentativo non portato a termine, la prima versione, può avere la stessa dignità estetica di un'opera compiuta e definitiva - necessita di " prodotti " ( non è una brutta parola, tutt'altro ) che possiedano il crisma, anche solo apparente, della finitezza. Abbiano cioè un inizio e una conclusione e siano tali, indipendentemente dal loro valore artistico, da essere mostrati con qualche speranza di successo economico ad un pubblico di media intelligenza che voglia trascorrere un paio d'ore a gustarne la vicenda, lo stile ed il significato. Piegare il cinema ad essere altra cosa da quella per cui è stato concepito mi sembra esercizio temerario e privo di reale godimento. Così, questo " The other side of the wind ", storia in bianco e nero del "tournage" e successiva proiezione per un pubblico di hollywoodiani " addetti ai lavori " di un film a colori che in realtà risulta appena abbozzato e che, anche nella finzione, nessuno vedrà per il semplice motivo che non è mai stato terminato, può piacere ed interessare solo a tratti e per motivi che non coincidono necessariamente con le intenzioni dell'autore ( che del resto non sono esplicite ). Piace comunque, come testimonianza dell'epoca, la descrizione quasi documentaria del variopinto mondo dei cineasti che ruotano intorno al film ( dal regista John Huston che impersona Welles, al regista e critico Peter Bogdanovich che fa l'assistente- segretario di quest'ultimo, ad altri personaggi del cinema di Hollywood più o meno celebri ). Piace e sorprende favorevolmente soprattutto il materiale a colori di cui è fatto lo spezzone di film mostrato ai cineasti , dove le geniali inquadrature, il continuo giocare a rimpiattino tra verità e illusione e la splendida apparizione "nature " di Oja Kadar, l'ultima compagna di Welles, fanno immaginare con rimpianto un tutt'altro film qualora Welles fosse riuscito a girarlo veramente nella sua interezza. In sintesi, giusto mostrarlo in una " Mostra di arte cinematografica " quale si autodefinisce Venezia. Ma quanto a vederlo proiettato ed apprezzato nelle sale, nutro qualche dubbio.
Infine, una menzione , con speranza di tornarvi più diffusamente quando - è certo- arriverà nelle sale italiane, al bel film di Julian Schnabel sugli ultimi mesi di vita di Van Gogh, " At the etenity's gate " ( Alle porte dell'eternità ) che ha chiuso la rassegna milanese. Di film sul grande pittore olandese, padre con Matisse della pittura contemporanea,ce ne sono almeno altri tre ( uno con Kirk Douglas, " Brama di vivere ", girato da Minnelli negli anni '50, uno di Altman del 1990 ed uno di Maurice Pialat l'anno successivo ) ma questo è specialissimo perchè adotta un punto di vista diverso da quello delle classiche biografie filmate. Del resto l'autore è lui stesso un artista , conosciuto ed apprezzato negli Stati Uniti ( di cui è cittadino ) come in Europa, e si capisce che ciò che l'interessa nella figura di Van Gogh non sono le nude vicende del binomio " genio e sregolatezza " su cui hanno puntato un pò tutti i suoi biografi, ma piuttosto l'itinerario spirituale ed estetico che lo ha portato ad una fine tanto scontata quanto emblematica. Ecco dunque Van Gogh raffigurato come un Cristo ( l'attore William Defoe che lo impersona era proprio stato Gesù nel film di Scorsese " The last temptation of Christ " ) che, ci verrebbe quasi da dire, " deve " morire per affermare il mistero, la sacralità dell'arte che mira a " redimere " l'umanità dalla propria pesantezza ed ignoranza. Ma quello che colpisce di più, nel film, è la continua ricerca di un convincente equivalente cinematografico dello stile pittorico di Van Gogh, tale da restituire la stessa emozione estetica. Ecco allora- e non piacerà a chi preferisce un approccio cinematografico meno convulso e spezzettato- le scene all'aperto girate da Schnabel con la macchina da presa in spalla che salta e giravolta affondando nell'erba alta e nei campi di grano,cercando di rendere l'entusiasmo panico di un artista affascinato e turbato dalla natura, così come dagli oggetti e dalle persone che raffigurava nei suoi interni egualmente carichi, contrassegnati dalla stessa pennellata robusta e " grassa ". Un bel film di un artista su di un altro artista. E molto merito della riuscita del film va riconosciuto all'attore Defoe, che ha giustamente ottenuto a Venezia la " Coppa Volpi " per la migliore interpretazione maschile.
Grandissima curiosità ed attesa vi era poi, a Milano come a Venezia, per una autentica chicca per cinefili incalliti. Parlo di " The other side of the wind " ( L'altro lato del vento ), l'ultimo film girato - ma rimasto incompiuto - da Orson Welles e mai montato e mostrato in pubblico sino ad oggi. Di esso si avevano scarse notizie e solo la pazienza di alcuni appassionati ha permesso di recuperarlo dove giaceva dimenticato e di consentire, tra il tanto materiale girato da Welles a partire dall'agosto del 1970, di tirarne fuori una versione abbastanza coerente anche se non sappiamo quanto fedele allo spirito con cui egli si era accinto all'impresa. Di fatto il film risulta un documento di un certo interesse sull'evoluzione che avrebbe probabilmente avuto il cinema di Welles se, dopo " Falstaff " ( che è del 1966 ) questi fosse riuscito a portare a termine almeno uno dei tanti progetti cui si dedicò in seguito, sino alla sua scomparsa. Ma è da chiedersi se, a parte i cinefili di cui si è detto e gli studiosi di Welles in particolare, il film possa realmente piacere ad un pubblico più vasto ed avere così una decorosa carriera commerciale. La risposta è probabilmente negativa ed è , a mio avviso, una ulteriore prova di quanto ho sempre sostenuto. Il cinema, a differenza delle arti figurative e della letteratura - dove l'abbozzo, il tentativo non portato a termine, la prima versione, può avere la stessa dignità estetica di un'opera compiuta e definitiva - necessita di " prodotti " ( non è una brutta parola, tutt'altro ) che possiedano il crisma, anche solo apparente, della finitezza. Abbiano cioè un inizio e una conclusione e siano tali, indipendentemente dal loro valore artistico, da essere mostrati con qualche speranza di successo economico ad un pubblico di media intelligenza che voglia trascorrere un paio d'ore a gustarne la vicenda, lo stile ed il significato. Piegare il cinema ad essere altra cosa da quella per cui è stato concepito mi sembra esercizio temerario e privo di reale godimento. Così, questo " The other side of the wind ", storia in bianco e nero del "tournage" e successiva proiezione per un pubblico di hollywoodiani " addetti ai lavori " di un film a colori che in realtà risulta appena abbozzato e che, anche nella finzione, nessuno vedrà per il semplice motivo che non è mai stato terminato, può piacere ed interessare solo a tratti e per motivi che non coincidono necessariamente con le intenzioni dell'autore ( che del resto non sono esplicite ). Piace comunque, come testimonianza dell'epoca, la descrizione quasi documentaria del variopinto mondo dei cineasti che ruotano intorno al film ( dal regista John Huston che impersona Welles, al regista e critico Peter Bogdanovich che fa l'assistente- segretario di quest'ultimo, ad altri personaggi del cinema di Hollywood più o meno celebri ). Piace e sorprende favorevolmente soprattutto il materiale a colori di cui è fatto lo spezzone di film mostrato ai cineasti , dove le geniali inquadrature, il continuo giocare a rimpiattino tra verità e illusione e la splendida apparizione "nature " di Oja Kadar, l'ultima compagna di Welles, fanno immaginare con rimpianto un tutt'altro film qualora Welles fosse riuscito a girarlo veramente nella sua interezza. In sintesi, giusto mostrarlo in una " Mostra di arte cinematografica " quale si autodefinisce Venezia. Ma quanto a vederlo proiettato ed apprezzato nelle sale, nutro qualche dubbio.
Infine, una menzione , con speranza di tornarvi più diffusamente quando - è certo- arriverà nelle sale italiane, al bel film di Julian Schnabel sugli ultimi mesi di vita di Van Gogh, " At the etenity's gate " ( Alle porte dell'eternità ) che ha chiuso la rassegna milanese. Di film sul grande pittore olandese, padre con Matisse della pittura contemporanea,ce ne sono almeno altri tre ( uno con Kirk Douglas, " Brama di vivere ", girato da Minnelli negli anni '50, uno di Altman del 1990 ed uno di Maurice Pialat l'anno successivo ) ma questo è specialissimo perchè adotta un punto di vista diverso da quello delle classiche biografie filmate. Del resto l'autore è lui stesso un artista , conosciuto ed apprezzato negli Stati Uniti ( di cui è cittadino ) come in Europa, e si capisce che ciò che l'interessa nella figura di Van Gogh non sono le nude vicende del binomio " genio e sregolatezza " su cui hanno puntato un pò tutti i suoi biografi, ma piuttosto l'itinerario spirituale ed estetico che lo ha portato ad una fine tanto scontata quanto emblematica. Ecco dunque Van Gogh raffigurato come un Cristo ( l'attore William Defoe che lo impersona era proprio stato Gesù nel film di Scorsese " The last temptation of Christ " ) che, ci verrebbe quasi da dire, " deve " morire per affermare il mistero, la sacralità dell'arte che mira a " redimere " l'umanità dalla propria pesantezza ed ignoranza. Ma quello che colpisce di più, nel film, è la continua ricerca di un convincente equivalente cinematografico dello stile pittorico di Van Gogh, tale da restituire la stessa emozione estetica. Ecco allora- e non piacerà a chi preferisce un approccio cinematografico meno convulso e spezzettato- le scene all'aperto girate da Schnabel con la macchina da presa in spalla che salta e giravolta affondando nell'erba alta e nei campi di grano,cercando di rendere l'entusiasmo panico di un artista affascinato e turbato dalla natura, così come dagli oggetti e dalle persone che raffigurava nei suoi interni egualmente carichi, contrassegnati dalla stessa pennellata robusta e " grassa ". Un bel film di un artista su di un altro artista. E molto merito della riuscita del film va riconosciuto all'attore Defoe, che ha giustamente ottenuto a Venezia la " Coppa Volpi " per la migliore interpretazione maschile.
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