lunedì 24 settembre 2018

" DOUBLES VIES " di Olivier Assayas ( Francia,2018 ) / "FRERES ENNEMIS" di David Oelhoffen ( Francia, Belgio , 2018 )

E' in corso in questi giorni a Milano la tradizionale rassegna " Le vie del cinema " che ospita un certo numero di film presentati  alla Mostra di Venezia nonchè in qualche evento cinematografico minore , sempre degli ultimi mesi. Una splendida occasione per vedere in anteprima opere non ancore immesse nel circuito commerciale ( nella migliore delle ipotesi) oppure che in Italia non vedremo mai ( ed è il caso, a volte, di alcune di non  secondario valore ma che i distributori giudicano di scarsa attrattiva per il grande pubblico ) . Una iniziativa che attira, nella decina di giorni in cui si sviluppa, non pochi appassionati ma anche occasionali spettatori mossi dalla curiosità di vedere un film appena trasmigrato da un evento mediatico di forte impatto come è un festival internazionale. Il cinema di qualità, lodevolmente, esce così dai luoghi per " addetti ai lavori"  come sono spesso le sedi di queste prestigiose rassegne, per approdare nelle normali sale cinematografiche ed incontrare così un pubblico più vario, meno specializzato ma egualmente speranzoso di godere della visione di un buon film o almeno di uno non banale e scontato, quali sono quelli puramente "digestivi " ( ammesso  che  la visione di opere di quest' ultimo tipo concili tale importante funzione... ).

La rassegna milanese si è aperta, quest'anno, nel migliore dei modi. " Doubles vies " , scritto e diretto dal francese Olivier Assayas, è infatti un ottimo film , ben congegnato nel suo progetto artistico, benissimo interpretato e con al centro un argomento molto moderno ed appassionante : il crescente uso dei nuovi mezzi e supporti di comunicazione sociale, da Internet agli e-book, dagli smartphone ai " social " come Facebook, Twitter, e via discorrendo, che tanto devastante impatto finiscono a volte con l'avere sulle nostre vite, alterandole e piegandole ad una crescente , disumana " virtualità ". Ma procediamo con ordine, dicendo prima, giacchè è importante per capire "  il perchè " di  questo film, chi è l'autore, Olivier Assayas. Dapprima critico cinematografico per i prestigiosi " Cahiers du Cinéma ", poi sceneggiatore ed infine passato alla regia all'incirca trent'anni fa, non ha legato in passato il suo nome a nessun'opera fondamentale ma si è sempre segnalato per la  lucida intelligenza delle trame e per il raziocinio delle  messe in scena. Inevitabile , diremmo quasi, che prima o poi affrontasse un tema di così palpitante attualità e fascino intellettuale. I personaggi  del film potrebbero essere, infatti,  i suoi stessi amici o sodali : benestanti borghesi parigini, attivi nel mondo della comunicazione, scrittori, editori, teorici delle nuove frontiere della cibernetica. Consapevoli ( chi con entusiasmo e chi con rassegnazione ) che il mondo viaggia inarrestabilmente verso la fine della parola scritta e stampata a vantaggio del messaggio informatico e del supporto digitale,essi  si muovono in  un ambiente in cui tutti si conoscono, si incontrano nelle rispettive abitazioni , discutono, fanno sfoggio delle loro convinzioni, articolando esistenze in qualche modo artificiali, rivolte all'arzigogolo cerebrale più che alla pienezza dei sentimenti e delle sensazioni. Anche se , come capirà chi vedrà il film, i personaggi hanno reciprocamente qualcosa da nascondersi, le " doppie vite " del titolo non sono quelle caratterizzate dai banali tradimenti o dalle piccole bugie cui essi  si piegano, bensì il fenomeno dell'insorgere, accanto alla realtà, di esistenze da questa dissociate, rivolte più ad obiettivi di successo e di dominio scollegati da genuine pulsioni umane : come se i  " media " che ci offre la nostra quotidianità ci stessero piano piano trasformando, con il loro particolare linguaggio  e la velocità di diffusione dei dati,  in superficiali fruitori di piaceri e di emozioni tanto fugaci quanto inconsistenti. Finchè , e lo spettatore lo scoprirà nell'ultima sequenza, la vera vita, ancora così riconfortante nella sua calda, protettrice semplicità , non arrivi a reintrodurre, provvisoriamente o meno, un briciolo di verità e di poesia.
  Molto parlato- e non potrebbe essere altrimenti, stante il soggetto - il film è tutt'altro che statico o noioso. La trama , lo si capisce subito, non è di  quelle che definiremmo corpose . Lo chiamerei, in estrema sintesi, più un film " di situazioni "  che di evoluzione o di sviluppo di una storia  che parta dalla caratterizzazione dei personaggi. Stilisticamente coerente con la scarna architettura narrativa è anche  la regia : pochi movimenti di macchina, scarsità di inquadrature particolarmente ricche di dettagli, lo spazio cinematografico è creato continuamente dai dialoghi che, in un certo modo, è come se dessero vita o rilanciassero  l'azione , assecondandola o facendole da contrappunto in sequenze sempre piuttosto brevi, scandite da un ritmo inappuntabile.   Scintillanti, gustosissime, ricche di continua inventiva, le battute che si scambiano i personaggi sono un autentico gioiello, pur non dando mai la sensazione che l'autore vi indulga per eludere in qualche modo la necessità di " raccontare per immagini " , che è poi - come sappiamo -  la vera essenza  del cinema. Se il film non dà mai l'impressione fastidiosa di un  " teatro filmato ", ingenerata da tanti film impreziositi ( o aggravati)  da un dialogo  ricco quando non  addirittura ridondante, il merito è proprio di Assayas, uomo di cinema fino alla radice dei capelli, ben consapevole che i grandi dialoghisti della settima arte ( Lubitsch e Rohmer su tutti )  usano la parola non perchè sostituisca in qualche modo l'immagine, ma anzi, in un certo senso, la anticipi, dando ad essa ancora maggiore significato e vigore. Essenziale, in un film del genere, la recitazione , il carisma degli attori sui quali incombe la necessità di  essere realistici ed emblematici allo stesso tempo. E' quanto è riuscito perfettamente a Guillaume Canet, che impersona il direttore di una antica e prestigiosa impresa editoriale : misurato ma intenso, elegante ed ironico, ecco un personaggio perfettamente e  dolorosamente calato nella sua duplice, nevrotica esistenza. Accanto a lui, l'evergreen Juliette Binoche ( sua moglie nella finzione ) finalmente restituita ad uno di quei personaggi brillanti e un pò folli che in fondo le si attagliano meglio di quelli lugubri e drammatici. Ma la vera rivelazione del film è la coppia (sempre nella vicenda ) Vincent Macaigne (il romanziere... compulsivamente autobiografico)  e  Nora Hamzawi ( l'assistente dell'uomo politico ). Ecco due attori di estrazione televisiva che mi sono sembrati assolutamente geniali nelle loro perfette caratterizzazioni. Una buona notizia , infine , per coloro che hanno avuto la costanza di seguirmi fin qui . Il film,  con il sorprendente titolo di " Non fiction "  (? ) uscirà in Italia il 28 novembre . Non ve lo perdete ! E non dimenticatevi che sotto mentite spoglie viaggia dunque, nel nostro Paese,  questo intelligente " Doubles vies " che caldamente raccomando.

Discorso dimetralmente diverso, purtroppo , per il secondo dei film che ho visto nella rassegna milanese, " Frères ennemis " ( fratelli nemici ) di un autore francese, David Oelhoffen, che ha già cinquant'anni e poco alle spalle, includendovi un lungometraggio , " Loin des hommes " , che aveva avuto qualche successo di stima quattro anni fa a Venezia in una sezione parallela a quella del " Concorso " e che non credo  sia mai stato proiettato da noi. Ma il motivo per cui sono andato a vedere il suo film , quest'anno addirittura in lizza per il Leone d'oro, era il fatto che si tratta di un " polar ", come i francesi chiamano i film polizieschi, ambientato in una delle tante " cités " che formano la grande banlieue parigina. Insomma, echi di bei film visti in passato, da  " Un profeta " di Michel Audiard ai classici film di Melville con Alain Delon e Jean-Paul Belmondo. Nulla di tutto questo , ahimè, in un film piatto, scontatissimo, senza un guizzo di ingegno , una riflessione sociologica che non sia di terza mano, un qualunque richiamo alla grande , autentica tradizione gallica del film " noir ". In questa vicenda assai poco originale di due amici cresciuti insieme in un quartiere " difficile " e diventati l'uno ( Manuel , di origine etnica incerta, forse gitana ) capobanda nel traffico di droga e l'altro ( Driss, di origine nordafricana ) poliziotto della squadra speciale antidroga, non vi è un solo accento di verità, che verrebbe comunque  irrimediabilmente soffocato da una sceneggiatura piena di smagliature, zoppicante ed asfittica. Nè l'interpretazione è migliore. Mathias Schoenaarts, attore belga che si crede l'erede di James Dean, rende il personaggio di Manuel ancora più inconsistente di come sia nello " script " e Reta Kaled, francoalgerino distintosi in passato  per qualche  parte secondaria , qui nel ruolo di Driss, è volenteroso e a tratti simpatico ma piuttosto monocorde ed impacciato. La regia pensa di supplire alla scarsità di idee con ampi movimenti di macchina , zoom a profusione e molte scene notturne di difficile  lettura estetica. Insomma , un gran pasticcio che non si capisce proprio come possa essere arrivato a Venezia , addirittura tra i ventuno  film in concorso . Che , anche qui , ci siano le raccomandazioni ? Misteri della laguna su cui è meglio sorvolare... Per il momento , fortunatamente, non si parla di una sua uscita in Italia.

3 commenti:

  1. Grazie per la recensione come sempre interessante e stimolante, ho annotato nella mia agenda dedicata.....

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    1. Grazie dell'apprezzamento . Non perda il primo film ( In Italia si chiamerà " Non fiction " )

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  2. Adesso Netflix da una possibilità in più al pubblico italiano di vedere quei film che altrimenti in Italia resterebbero sconosciuti. Una buona notizia.

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