giovedì 5 luglio 2018

" L'AFFIDO " di Xavier Legrand ( Francia, 2017 )

Qualunque film , al pari di un'opera letteraria o drammatica o di un brano di musica,  cioè di ogni creazione artistica che, a causa della  sua struttura, può essere  fruita solo  "in progressione " secondo una sequenza preordinata dall'autore, ci dovrebbe apparire  fin dall'inizio  sorretto ed animato da un' idea centrale che ne determini la traiettoria e  ne irradi tutte le parti.  Una idea forte,   che si mantenga  e si  sviluppi inesorabilmente fino alla fine , fino alla conclusione di quell'esperienza sensoriale e  allo scioglimento del particolare stato d'animo che ci ha accompagnati lungo il suo  percorso. Una " rivelazione " del significato, direi quasi della " ragione " del film , che può talvolta non essere facilmente scorta dallo spettatore e  che gli sfugge, quindi, quando non emerga con la dovuta chiarezza. Oppure, caso anch'esso  non infrequente, quando quello che credevamo di avere identificato come l'intento o " l'animus " dell'autore  risulti poi una  pista illusoria che non ci consente di arrivare alla " verità " dell' opera. In entrambi i casi , se si esclude l'ipotesi di una insensibilità o non  sufficiente reattività degli stessi spettatori, la responsabilità di quanto accaduto  va attribuita necessariamente agli autori, regista e sceneggiatore in primo luogo . Sono essi , in definitiva, che se "non si sono fatti capire ", hanno fallito il loro compito, o per non averci permesso di cogliere  la " ragione " del film o per non aver tenuto fede a questa fino alla fine. Insomma, personalmente non credo ai geni incompresi e al mito di uno spettatore troppo pigro per fare la fatica di comprenderli. Poichè sono essi, gli artisti , che debbono saperci trasmettere, con continuità e coerenza, l'emozione che ci permetterà così di cogliere le loro intenzioni e di pervenire ad un pieno godimento della loro opera. 

Lunga premessa - ma non credo superflua - per affermare che " L'affido " , da poco sui nostri schermi, potrà anche essere, come qualcuno ha rilevato, non privo di difetti di costruzione che ne inficiano in ultima analisi l'impatto ed il valore specifico. Ma che certo non può essere accusato di  celare il suo gioco, di nascondere insomma quale sia appunto quella inesorabile traiettoria che è al suo interno e che viene sviluppata in modo che a me appare quanto mai convincente. Film francese che rivendica la sua origine " grand public ", non elitista,   si fa apprezzare per l' " umiltà " programmatica con cui  affronta  un argomento che è molto sentito dall'opinione pubblica di oggi, cioè le drammatiche lacerazioni  che possono determinarsi nella vita di coppia e le loro conseguenze sui figli  E per la capacità, ripeto,  di far emergere fin dall'inizio il suo tema centrale- il disadattamento sociale e la forza distruttrice dell'individuo che ne sia affetto - senza mai deflettervi, in una progressione drammatica che diviene   sempre più coerente e che ci rivela  man mano con assoluta evidenza quale sia il punto di vista " morale" del regista-sceneggiatore Xavier Legrand, qui al suo primo  e promettente lungometraggio. Se si riflette al suo titolo originale ( " Jusqu' à la garde " )  le intenzioni dell'autore   dovrebbero risultare abbastanza trasparenti fin dall'inizio. La " garde ", è vero,   evoca letteralmente  "l'affido " della versione italiana, cioè il provvedimento di un giudice minorile che decide che il figlio maschio della coppia formata dai nostri personaggi,  Antoine e Miriam, da poco separati, sia affidato ad entrambi a rotazione,  secondo una crudele spartizione del tempo e degli affetti. Ma la " garde ", in francese , è anche l'elsa di una spada e l'espressione " jusqu' à la garde "  vuol dire, metaforicamente, " fino in fondo ", " fino alle estreme conseguenze ", come di chi , appunto, affondasse una spada fino all'elsa nel corpo di un avversario E questa inesorabile traiettoria , questo crescendo di incomprensione , di incomunicabilità , di lotta  e di orrore che dividerà sempre di più Antoine da un lato , Miriam e il figlio dall'altra, è il tema declinato senza alcuna flessione o perdita di ritmo da questo bel film . Avevo potuto vederlo a Parigi l'inverno scorso ed è triste che  giunga a noi in un momento nettamente meno favorevole, quando la stagione sta finendo ed i distributori, in tutta evidenza, non ripongono grandi speranze negli ultimi " scampoli " che ci offrono mentre le sale si fanno sempre più deserte. 

Dunque Antoine e Miriam sono i protagonisti di questa storia. Due persone come tante, banali, estrazione sociale medio-inferiore, cultura presumibilmente modesta. Un tempo ( quando ?) devono pur essersi amati,  aver deciso di fondare una famiglia, avuto dei figli. Da quanto capiamo e molto presto incominciamo a vedere con i nostri occhi , se Miriam ha avuto forse le sue " colpe "( introversa, poco trasparente, leggermente manipolatrice ) Antoine è l'uomo che probabilmente non avrebbe dovuto mai sposarsi e diventare padre. Scarsamente cosciente delle sue responsabilità, tendenzialmente infantile, portato al vittimismo, niente affatto  empatico, si aggrappa alle prerogative che la legge ancora gli riconosce per tormentare la moglie, non concederle l'affido esclusivo del figlio ( la figlia adolescente vive già con la madre e non intende avere più alcun rapporto col padre ) angariare e umiliare il ragazzino che ha il diritto di tenere con sè tutti i fine settimana. Questo Antoine ( bravissimo l'attore che impersona un personaggio così sgradevole ) è in un certo senso anch'egli una vittima ( forse dei propri genitori, certo della nostra società ) ma è al tempo stesso il carnefice della moglie separata e del figlio : minacciati, tormentati, spiati e seguiti, in un crescendo di folle persecuzione che , nel finale , sembra quasi virare pericolosamente verso il filone horror, alla " Shining " per intenderci. Ed è qui che i detrattori di Legrand lo hanno accusato di scarsa coerenza , di improvvisa rottura della tonalità impiegata fino ad allora dal film : dal dramma familiare mantenuto nell'alveo dello psicologismo e di un  sociologismo, diremmo,  da aula di tribunale si  passerebbe di colpo, spezzando l'unità concettuale ed estetica dell'opera, ad un film sopra le righe, quasi granguignolesco e con un finale "inverosimile " . Niente di meno vero. In realtà- ed è qui che Legrand riesce a legare convincentemente l'uno e l'altro registro della vicenda - la parabola di Antoine, il suo scendere sempre di più nel disadattamento e in un sordo vittimismo senza costrutto, sino alle scene parossistiche del finale, è annunciata fin dalle prime scene, fin dal suo presentarsi come una brav'uomo, comprensibilmente solo un po' depresso, al suo piagnucolare con la moglie , al tentare puerilmente di riconquistare la simpatia del figlio.

Insomma, sembra  dirci Legrand ( che ha dilatato, per questo primo lungometraggio, un suo precedente "corto " sulla stessa vicenda che gli aveva valso molti apprezzamenti  ) un comportamento malato o violento non nasce all'improvviso. Ma è preannunciato da una serie di segnali , magari non subito percettibili o agevolmente decifrabili, che sono premonitori del tormento prima e poi della tempesta che agiterà quel cuore e quella mente. E il cinema, incaricandosi di seguire, riferire o ricostruire, come più si preferisce, quel percorso di dolore e di follia, tanto più riuscirà nel suo intento quanto saprà creare un clima di inquietudine, di minaccia e di attesa che faccia presagire che qualcosa sta per accadere, che siamo in direzione " borderline ", sicchè tutto quel che succede poi  appaia non come una sorpresa ma come la naturale , inevitabile conseguenza di premesse così dubbie e pericolose. Tutto quanto  ho appena detto riesce molto bene a " L'affido ", che si conferma così film intelligente,  oltre che moderno e  vibrante. Passi per i difetti di sceneggiatura o per qualche " citazione " di troppo nella parte finale. Siamo in presenza di una gran bella opera prima e di un autentico artigiano del cinema che sa quel che fa e quel che fa lo fa bene. Fotografia un pò troppo smagliante per un film abbastanza " dalle mezze tinte ", gli attori sono a posto, inclusi i minorenni . Miriam è Léa Drucker, vista in altri film . Qui è sufficientemente ambigua e distante perchè lo spettatore ( giustamente ) non parteggi subito per lei. A questo povero Antoine, prototipo di tanti maschi confusi e rancorosi di oggi, non vogliamo almeno lasciare il beneficio del dubbio, del nostro  dubbio,  che- pur se titolare di comportamenti meno  violenti - la moglie non sia poi tanto meglio di lui ?

Nessun commento:

Posta un commento