giovedì 1 giugno 2017

" Quaranta pistole " di Samuel Fuller ( USA, 1957 )

Ci sono registi, ci sono film, che progressivamente svaniscono nel nostro ricordo. O che non abbiamo mai visto, o di cui non abbiamo neanche sentito parlare. Succede. Il cinema, a volte, può (ingiustamente) essere effimero. Metà arte, metà spettacolo e quindi prodotto di consumo, sembra - più di qualunque altra opera dell'ingegno - destinato dopo poco all'oblio. Specie se i suoi creatori non hanno una fama che resista al tempo e che li affidi, anche diversi anni dopo la fine della loro carriera, alla memoria degli estimatori e all'inesausto piacere dei cinefili. Tra  i cineasti che oggi appaiono dimenticati e di cui probabilmente le più giovani generazioni nulla sanno vi è , con una buona dose di ingiustizia, l'americano Samuel Fuller. Il pretesto per parlarne mi è offerto dalla visione in questi giorni di quello che è senza dubbio uno dei suoi film migliori, " Quaranta pistole " ( " Forty Guns " ) realizzato e distribuito nel 1957. Un anno particolare per il regista ( e sceneggiatore di questo e di quasi tutti gli altri suoi film ) perchè  uscirono, una dietro l'altra, ben tre sue creazioni. A dire quanto il prolifico Fuller, negli anni '50, fosse reputato un nome di tutto rispetto e che richiamava senza troppe difficoltà i capitali indispensabili  per permettergli di girare. Originale, bizzarro perfino, ma autentico, grande uomo di cinema. Non sempre capito dal pubblico, che poteva preferirgli i più tradizionalisti - ma inferiori - Huston, Zinneman, Hathaway ( per citare tre " nomi " particolarmente attivi e stimati nello stesso periodo ). E neanche molto sostenuto dalla critica, specie quella europea,  che ha spesso arricciato il naso di fronte  ad un autore tacciato di volta in volta di smaccato anticomunismo, bellicismo eccessivo, apologia della violenza, insidioso maschilismo. Impresentabile in società, in altre parole. Tutt'altro che un intellettuale alla moda. O almeno un geniaccio " politically correct " alla pari di Orson Welles ( con il quale Fuller ha pur qualche lato in comune). Nato nel 1912, attivo, sostanzialmente, tra il 1948 ( " Ho ucciso Jesse il bandito" ) e il 1965 ( anno del suo diciottesimo lungometraggio ) ha poi continuato a dirigere sporadicamente negli anni ' 70 ed ' 80, ed è morto nel 1997. Di premi, nel corso della carriera, ne avrebbe meritati tra i più prestigiosi. Ma, a parte un "leone di bronzo " ad un lontano Festival di Venezia, ha solo ottenuto, nel 1993 a Locarno, un tardivo riconoscimento all' intera sua opera. Poca cosa, insomma. Eppure i suoi film sono ancora oggi godibilissimi. Autentiche lezioni di come si scrive e di come si dirige per chi li sappia ( e li voglia ) guardare con animo non preconcetto, ci restituiscono uno dei più genuini esponenti dell'arte cinematografica. Per alcuni potrebbe essere una scoperta necessaria. Per molti un'utilissima conferma.

" Quaranta pistole " è un western. E, come tale, non si sottrae alle servitù di un "genere" codificato come nessun altro. Sparatorie, cavalcate,ammazzamenti, il contrasto tra buoni e cattivi. C'è tutto per rassicurare gli adepti di quella che , fin dai primordi del cinema, si è venuta configurando come una sorta di religione di rito strettissimo. E Fuller, totalmente immerso nel sistema hollywoodiano del cinema di genere, le paga il dovuto omaggio, rispettoso della tradizione. Anzi, per certi aspetti, dimostra un fervore filologico tutto particolare. Nelle scenografie, nella minuziosa ricostruzione della solita cittadina di frontiera dove è ambientata la vicenda, nei costumi studiatissimi nei minimi particolari indossati dai protagonisti, si vede  lo scrupolo artigianale di un regista intento a restituirci, più vero del vero, uno spaccato dei territori dell' Ovest ( siamo già diversi anni dopo la Guerra civile ) ancora preda di avventurieri, proprietari terrieri semifeudali, amministratori pubblici pavidi o corrotti, dove la legge è spesso sottomessa alla violenza e all'arbitrio. Eppure la vicenda ed il suo trattamento sono assolutamente non banali, anzi originali ed entusiasmanti perchè antinaturalistici, intrisi di lirismo , rispondenti più ad una visione soggettiva, onirica e melodrammatica, che ad una narrazione  piattamente descrittiva. Il protagonista maschile e tradizionale difensore della legge ( qui un agente federale ) venuto in città per arrestare un suo collega " venduto " ad una cricca di lestofanti che terrorizzano la popolazione, è fronteggiato dal capo della pericolosa masnada, una bella ( ma non più giovanissima ) avventuriera di umili origini. L'uno e l'altra , come appunto in un melodramma di Verdi o di Puccini, sono fatalmente spinti verso un' unione, una simbiosi carnale che è la  trasparente metafora dell'indissolubilità ( quindi del  necessario ricongiungimento ) del bene e del male o , se volete, l'inevitabile attrazione ( e complementarità ) degli opposti. E poco conta che, in omaggio alla correttezza contenutistica del cinema di quegli anni, la " cattiva " debba "redimersi" per sperare in una più duratura unione con il suo persecutore. La " chimica " che li guida e la passione poi che li domina se ne ridono delle convenzioni e ci restituiscono due personaggi forti, inquietanti, "inverosimili " se misurati col metro della mera logica, ma tremendamente veri e vivi quando trasfigurati dal fuoco della creazione artistica. Grande direttore di attori, Fuller ottiene da  Barry Sullivan ( un attore essenzialmente di teatro, senza particolare carisma ma di una " giustezza " qui a tutta prova ) e da Barbara Stanwyck (allora cinquantenne ma ancora splendida, alla sua ultima prova di rilievo ) una interpretazione intensa e , come richiesta dal contesto, leggermente sopra le righe, in sintonia con la voluta " esagerazione " di una vicenda sottratta alla semplice cronaca ed affidata ad una  esemplarità che può essere raggiunta solo con la deformazione del vero e l'ingresso nel sogno.

Fuller, dicono i suoi detrattori, è un barbaro, un primitivo. Intendono, con ciò, demolirne sul nascere qualunque " sapere " cinematografico si possa rintracciare in lui, sminuirne il significato ed il valore. Ma è proprio  in questa pretesa incultura  che risiedono l'interesse ed il fascino che suscita la sua figura artistica. " Barbaro"  perchè ha il coraggio di non aggregarsi ad alcuna " scuola ", di reinventare il cinema come se questo fosse ancora alle origini e di liberarsi, quindi,  delle influenze figurative o contenutistiche  che finiscono col gravare su coloro che si cimentano in generi cinematografici troppo frequentati : il western appunto, il film di guerra, il poliziesco. Il suo incedere ( e lo vediamo molto bene in questo " Quaranta pistole " ) è personalissimo, fantasioso ed innovatore. I suoi personaggi, pur ricalcati su " stampi " ormai consolidati da una lunga tradizione, si muovono, respirano quasi, in un'aura originale, mai banale, a volte perfino grottesca, lungo moduli narrativi che definiremmo quasi, in linguaggio musicale, polifonici : estremi, talvolta addirittura eroici, e nello stesso tempo  autoironici e smitizzanti. Chi conosce o vedrà il film di cui sto parlando ne troverà riscontro in varie sequenze : dalla " confrontation " iniziale, tipo " mezzogiorno di fuoco ", tra il protagonista ed il fratello della bella capobanda, alla incredibile sequenza del fallito attentato al protagonista medesimo ad opera dello sceriffo corrotto ( vera irresistibile " pièce " in cui la tensione dell'agguato si stempera nella franca comicità del comportamento del fabbricante di bare,con un montaggio nervoso e spezzettato che corrisponde perfettamente alla drammaticità della situazione ed alla imperizia dei cospiratori ). Vedendo e rivedendo proprio questa scena si capisce quanto, nelle sue opere più sconcertanti e quindi interessanti, sia debitore al maestro americano il western all'italiana di Sergio Leone per quel piglio gagliardo ma ricco di sarcasmo che  ne ha fatto le fortune.
" Primitivo ", poi, Fuller lo è certamente se prendiamo per buona la sua professione di fede in un cinema fatto di sentimenti primigeni, di amore e di odio, di azione e di violenza, in una sola parola di emozione. " Cinema is emotion " gli fa dire , ne "Il bandito delle 11" ( "Pierrot le fou" )  l' ammiratore  riluttante Godard . E mai " pronunciamento " sul significato ultimo del cinema, forse,  fu più sincero.  Perchè il  cinema  di Fuller ci porta davvero indietro ai primordi di quel mezzo di espressione, quando - prima delle sovrastrutture ideologiche che qualche volta hanno rischiato di corromperlo - l'essenza di quest'ultimo , il suo " core business ", era davvero " immagini in movimento ( motion pictures ) che provochino emozioni ". Ma primitivo non vuol dire certo rozzo o privo di stile e di eleganza. Si guardi , sempre in " Quaranta pistole " alle mirabili inquadrature che compongono due tra le sequenze più belle. La prima è, nella prima parte del film,  quella della schermaglia erotica tra il fratello ed aiutante del protagonista e la bella armaiola che egli ha appena conosciuto ( impersonata da  una biondina niente male che si chiamava Eve Brent ma che non ha avuto molta fortuna col cinema ). Gli sguardi, il dialogo allusivo, i primi contatti , sono quasi riassunti- per così dire - in un inusuale, fantastica inquadratura "soggettiva " del malizioso sorriso della fanciulla  visto  attraverso la canna di una pistola, immagine che sfuma, in quella successiva, in un breve e rovente abbraccio tra i due. Tanto di cappello, qui, ad un fraseggio ellittico che pochi registi che avessero voluto descrivere  la nascita  del reciproco desiderio ed il suo coronamento sarebbero riusciti ad esprimere con tanta economia di mezzi . La seconda sequenza è quella del funerale ( non dirò di chi, per non togliere la sorpresa ) dove tutto il pathos, la solennità e la quieta assurdità di un momento così triste sono espressi, senza dialogo alcuno, da un lento , doppio movimento  laterale della macchina da presa che inquadra, nell'ordine, il congiunto " elegantemente " in gramaglie, uno stupendo , stilizzato, carro funebre e un personaggio minore che intona un bellissimo " spiritual " adeguato alla circostanza. Primitivo , forse, ma ricco di fascino, di  inventiva, in definitiva di autentico e inimitabile stile figurativo.

Solido narratore - le sue sceneggiature sono essenziali ma prive di " buchi " e di smagliature -  Fuller è dunque altrettanto abile ed ispirato nel dare veste figurativamente acconcia ai fantasmi partoriti dalla sua vena creatrice. Nè troppo in alto nè troppo in basso, nè troppo a destra nè troppo a sinistra: si direbbe che egli sappia sempre dove disporre la macchina da presa per trovare l'inquadratura giusta. E le immagini che ne vengono fuori, le figure cui egli dà vita, sono quasi mai banali o ininfluenti sulla progressione drammatica della vicenda. Qualcuno ha detto, cogliendo un aspetto tutt'altro che marginale del suo lavoro, che se le sceneggiature di Fuller ( per la loro pregnanza e capacità di mirare all'essenziale) sono davvero cinematografiche, le sue inquadrature sono per contro sempre squisitamente "letterarie " nel senso che contengono significati che trascendono ciò che è mostrato e che rinviano ad echi e suggestioni sottostanti e più profondi. Probabilmente è vero. Ma non insisterei su questo aspetto , che rischia di restituirci un Fuller troppo " intellettuale ", lontano da quel  genuino cineasta  che egli è. Raffinato, non sprovvisto certo di un suo retroterra più segreto, ma soprattutto istintivo e geniale nel rendere con immediata, plastica evidenza il bello ed il brutto della natura umana . " Quaranta pistole " mi è sembrato perfetto in questo senso. Capace  costantemente di appassionare lo spettatore, di tenerlo col fiato sospeso, di commuoverlo e di farlo sorridere. Spirito indipendente ma rispettoso dei necessari condizionamenti produttivi che ogni artista di cinema, prima o poi, è  costretto ad assumere, ad introiettare nella propria creazione artistica, Fuller qui ha dovuto accettare un finale che non era quello, meno lieto, che egli avrebbe voluto dare alla sua storia. Per questo ha sempre cercato in seguito di affrancarsi dal controllo delle maggiori compagnie produttive. Ma non era certamente un ribelle o un rivoluzionario. Riconosceva l'importanza del rischio corso dai finanziatori, distributori, esercenti delle sale dell'epoca ( la sua parabola artistica si è incrociata , in gran parte, con la crisi del cinema hollywoodiano negli anni cinquanta del Novecento, pesantemente insidiato dal rampante mezzo televisivo ). Amava , probabilmente, troppo il cinema per non rispettarne tutti i suoi aspetti. Quelli artistici come quelli inevitabilmente commerciali. Contemperando gli uni e gli altri in risultati che, se non sempre di pieno successo quanto a gradimento del pubblico e della critica,  erano comunque frutto di grande onestà creativa e di piena sensibilità. Qualcuno, insomma, che ha amato veramente il cinema e ha vissuto per esso. Da qualche giorno " Quaranta pistole " mi ronza nel cervello, riaffiora continuamente dal mio subconscio, batte alle porte della mia sensibilità estetica. Non tutta l'opera di Fuller penso sia  alla stessa altezza. Ed egli non possiede, nella stessa misura e  con la stessa costanza, la forza evocativa, il rigore creativo di un Ford , di un Welles o di un Hitchcock.  Ma questo film è  una vera " lezione " di cinema, un piacere per chi  crede in questa fantastica  forma di espressione artistica. Da vedere assolutamente ( uscito da pochissimo in DVD, in una copia completamente rimasterizzata che ci restituisce il formato " cinemascope " dell'epoca, con una fotografia in bianco e nero di rara suggestione ).





     


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