martedì 13 giugno 2017

" Una vita " di Stéphane Brizé ( Francia, 2016 )

Il rapporto tra cinema e letteratura è sempre stato, da che si fanno dei film tratti da opere letterarie , uno dei più complicati, dei più difficili da risolvere. La parola scritta e l'immagine cinematografica rispondono a logiche di composizione, a "grammatiche ", a canoni estetici molto diversi. Benchè, per taluni film, si parli di "cinema letterario" e sia stata addirittura teorizzata, da parte dei francesi,  una " camera stylo ", cioè una macchina da presa che " scriva " i film come se fosse quasi una penna stilografica, il cinema dispone, per sua natura, di una autonomia di impianto e di un linguaggio che non potrebbero mai confinarsi ad una mera trasposizione per immagini  di una narrazione letteraria. Anche i film che si vogliono più fedeli al testo da cui nascono ( romanzo o racconto che sia ) finiscono poi col conquistare una loro fisionomia indipendente. Si staccano  dal modello da cui avevano preso le mosse, per il solo fatto di vivere sullo schermo e non sulla pagina, e chiedono di essere giudicati per quelle forme nuove che hanno creato e che li distinguono ormai inesorabilmente dal loro punto di partenza.
Possono sembrare , queste che precedono, considerazioni abbastanza ovvie. Eppure , quanti ( cattivi ) film che si segnalano per aver dimenticato , in un certo senso, che l'opera cinematografica non può - non deve - essere puramente illustrativa dell'opera letteraria da cui è tratta. Adattare un romanzo o un racconto per lo schermo richiede, certo, sensibilità ed aderenza al significato del testo. Ma anche e soprattutto talento  cinematografico " puro ". Capacità, voglio dire, di " ricreare " quell'opera con un linguaggio confacente a quello straordinario mezzo di espressione artistica che è il cinema. Mezzo che occorre  saper dominare ed indurre a " far sua " l'opera letteraria da cui trae occasionalmente ispirazione al fine di esprimere le stesse emozioni che nascevano dalla pagina scritta. Un'alta e difficile attività di mediazione, in definitiva, tra due " generi " artistici contigui e diversi al tempo stesso e che non può  concludersi, nella fattispecie, che con il trionfo dell'immagine  sulla parola.

Considerazioni, queste stesse, che mi tornano in mente ogni volta che vedo un film tratto da un opera letteraria. In specie se conosco quell'opera , perchè più facile mi è il raffronto e quindi il giudizio sulla capacità di sceneggiatore e regista di dar vita ad un mondo " loro ", pur  non discostandosi dallo spirito del testo adattato per lo schermo. In effetti, trasporre opere letterarie piuttosto celebri è molto più impegnativo che esercitarsi su operine semisconosciute e che possono essere usate come un semplice canovaccio, senza che il pubblico o la critica abbiano  a storcere il naso e manifestare il loro disappunto. Ed è quanto ho pensato, alcune sere fa,  andando a vedere  la versione cinematografica del primo romanzo di Guy de Maupassant, " Una vita " (" Une vie "). Un  film sceneggiato e diretto da un regista francese , Stéphane Brizé, non molto conosciuto da noi se non per " La legge del mercato ", il suo precedente film interpretato da Vincent Lindon. Dirò subito che mi è parso un film davvero molto ben riuscito nel non tradire il testo sottostante e nell'essere capace, contemporaneamente, di dar vita a qualcosa di personale e di autarchico, del tutto corrispondente alle esigenze  di una vera creazione cinematografica. Grande cinema , insomma. E sincero omaggio al romanzo realista degli ultimi venti-trent'anni del secolo decimonono, cioè di uno dei momenti più felici della letteratura francese ( Maupassant, Flaubert, Zola ) e che ha spesso ispirato il cinema del secolo successivo e del nostro con risultati, peraltro, non sempre adeguati. Qui , invece, tutto è mirabile. Dal modo di affrontare il testo originario, di cui ora dirò, alla  composizione delle immagini, alla recitazione di tutti gli interpreti, alla fotografia, alla scenografia, alla musica, ogni aspetto della creazione artistica si fonde in un risultato assolutamente convincente .

Siamo in Normandia, negli anni immediatamente successivi al crollo dell'impero napoleonico, quando la restaurazione non solo politico-istituzionale ma sociale e dei costumi era all'apogeo. Jeanne, fatta educare in convento dai genitori,  modesti esponenti della piccola nobiltà di campagna, è praticamente " data " in sposa a Julien, un giovane nobilotto spiantato, che si rivelerà presto  un tirannello crudele ed  egoista.  Senza alcuna esperienza autonoma, mal amata, chiusa in un piccolo mondo senza " uscite di sicurezza ", tra stanchi riti di società e scarsi piaceri di una noiosa vita domestica, l'eroina del romanzo attraversa con crescente ,doloroso stupore la progressiva scoperta di un mondo così lontano dalle sue aspettative. I tradimenti del marito, la freddezza dell'ambiente circostante, la delusione di amicizie che si rivelano effimere, le disgrazie che si abbattono sulla sua casa, non ne spengono tuttavia l'intima bontà, la capacità di empatia, l'ingenua attesa di un domani migliore.Anche quando il figlio da lei tanto amato si rivela così simile al padre nella sua irrequietezza, egocentrismo e abilità menzognera- e potrebbe davvero essere questo l'ultimo colpo per la povera Jeanne - un filo di speranza ( o di nuova illusione ) si fa strada in lei facendo chiudere il romanzo con la celebre frase pronunciata dalla fedele cameriera Rosalie : " La vita, vedete, non è mai nè così buona nè così cattiva come si crederebbe ". Appropriata epigrafe della concezione filosofica di Maupassant: un pessimismo cosmico mitigato dalla simpatia verso gli umili e i vinti, venato da una sottile ironia e sorretto a volte dalla intuizione di un qualcosa di misterioso e di inspiegabile ( non ancora Dio, ma un sospetto di sacralità ) che aleggia sulle miserie della nostra vita terrena.

La " mossa " vincente di Brizé nel ridurre il romanzo e traferirlo nello stampo di un film intelligentemente di media durata ( circa due ore ) è stata quella, innanzitutto, di alterare la rigida scansione temporale degli avvenimenti narrati, tipica del romanzo " classico " ottocentesco. Pur mantenendo il filo della  successione cronologica dei principali fatti evidenziati ( fidanzamento e matrimonio di Jeanne, dissapori e delusioni della sua nuova vita, accadimenti drammatici che determinano una svolta nella sua esistenza, i difficili rapporti tra Jeanne ed il figlio che la delude così crudelmente ) completamente libera è invece la " ricostruzione " in immagini delle varie vicende e la concatenazione delle immagini stesse sullo schermo.  Tra le  scene che si svolgono nell'ordine con cui le ha narrate Maupassant- e sono in genere i momenti salienti che descrivono l'evoluzione di Jeanne, i suoi turbamenti e le sue frustrazioni - il regista intercala altre brevi sequenze, a volte semplici  e fugaci immagini prive di dialogo, che anticipano, quasi fossero delle premonizioni di ciò che deve ancora accadere, il corso degli eventi. Oppure immagini, brevi squarci di luce, che illuminano il passato e permettono di meglio comprendere, quasi come un contrappunto " ex antea ", la situazione ed il presente stato d'animo della protagonista. Il regista ( e sceneggiatore ) Brizé ha , come si dice, felicemente " destrutturato " il romanzo. E lo ha poi ricomposto utilizzando, nell'ordine che gli dettava la sua ispirazione, i vari tasselli che ne ha ricavato. Ordine che non ha nulla di arbitrario perchè rimane fedele allo spirito dell'opera letteraria ed è soprattutto cinematograficamente efficace, perchè ottiene due risultati capitali. Il primo è che questo procedimento " ellittico " gli consente di sfrondare abbondantemente tutte quelle parti che, letterariamente " credibili " e financo pregevoli, sullo schermo non avrebbero avuto la stessa forza se trascritte pedissequamente ( ad esempio il viaggio di nozze in Corsica di Jeanne e Julien, che nel libro occupa parecchie pagine ed è, nel film, sintetizzato in un paio di solari inquadrature mentre  i due sposi navigano stretti l'uno all'altro su di un piccolo veliero ). Il secondo è che, sempre nel film,  la successione degli eventi si concatena in un modo molto più rapido e drammatico che nel romanzo, creando nello spettatore  quel doloroso sentimento di ineluttabilità e quella " pietas " verso il destino della sfortunata Jeanne che proprio Maupassant  costruisce nel libro attraverso un " crescendo " più lento e necessariamente meno immediatamente evidente. Ecco dunque esemplificata come meglio non si potrebbe la necessaria autonomia dell'opera cinematografica dalla " base " letteraria da cui essa è partita. Forte , vigoroso, a tratti crudele come era indispensabile che fosse, il film di Brizé si segue come un " giallo " o un film di azione anche se non ne ha minimamente le caratteristiche. Un grande risultato di regia, perchè - lo abbiamo detto più volte in passato per altri film - capace di costruire, con gusto raffinato, " forme " e non semplici figure ( la differenza tra una statua e un bassorilievo). Ma anche un eccezionale  "tour de force " di sceneggiatura per comprimere e sistemare con mano sicura    il tanto materiale offerto da uno dei più bei romanzi della letteratura europea.

Come Maupassant, Brizé ha una spiccata sensibilità per il paesaggio, la natura , il succedersi delle stagioni. Le immagini ricorrenti della morfologia a tratti selvaggia della costa e dell'immediato retroterra normanni sono di una bellezza calma e sconvolgente al tempo stesso. Jeanne , ci è dato pensare, li deve aver visti nello stesso modo , nei suoi turbamenti, nel suo anelito ad un soprassalto di libertà. E accanto a queste, gli interni spesso angusti ( o percepiti come tali ) della  abitazione paterna, divenuta poi l'infelice dimora della giovane coppia,  un microcosmo concentrazionario fatto di umiliazioni , di piccole sopraffazioni, abitato da un " cuore semplice " che soffre silenziosamente. E quell'orticello che Jeanne coltiva, spesso coadiuvata da suo padre, con maniacale attenzione, come se da quei semi e da quelle piantine infisse nel terreno dovesse nascere una risposta alle sue ingenue aspettative o una parola di verità che avesse la forza di illuminare il buio della sua esistenza .
Lo splendore figurativo del film deve molto, dicevamo , al susseguirsi sapiente delle inquadrature, alla rapida alternanza dei primi piani con i campi lunghi, come se il regista volesse a tratti ghermire i suoi personaggi, non dare loro scampo, oppure ricollocarli nel contesto più dilatato ( umano, sociologico ) al quale appartengono. La stessa scelta di usare un formato di proiezione quasi quadrato ( identico, o forse soltanto simile a quello impiegato recentemente da Xavier Dolan in " Mommy " ) oltre a rendere bene il senso di soffocamento , di costrizione , vissuto dalla protagonista, tiene coeso l'aspetto figurativo del film , senza possibili " fughe " nel pittorico e nel descrittivo tipiche di tanti film " in costume ", richiamandolo al compito di dar conto, e null'altro, del dramma esistenziale di Jeanne. A contribuire alla riuscita totale di un film giustamente ambizioso, una fotografia a colori che sfugge anche qui alla tentazione " pittorica " di tanti film ambientati nel passato per mantenersi costantemente funzionale  allo spirito del film ( si pensi alle scene d'interno illuminate solo dalla luce delle candele,alle alternanze potenti di luci e di ombre e poi alle improvvise incursioni "en plein air"). La musica, discreta ma efficace, si fa quasi dimenticare ed è il miglior elogio che le si possa rivolgere per un film che crea da sè, senza bisogno di sottolineature ulteriori, il suo mondo poetico.

L'interpretazione è superba. Judith Chemla " è " Jeanne, non la interpreta . Raramente ricordo un'attrice che abbia saputo rendere il suo personaggio nello stesso modo, intenso, sofferto, e con altrettanta nobiltà di espressione. I due genitori ( Yolande Moreau e Jean- Pierre Darrousin ) sono patetici ed emozionanti quanto serve . L'attore che interpreta Julien e quello   che " fa " il figlio Paul da grande ,stolidi e  sinistri senza sconti. Tutti a posto i personaggi minori e i figuranti stessi, a riprova della lunga preparazione del film e dalla cura che ha avuto Brizé ( che vi ha pensato, sembra, per almeno vent'anni ) nel curarne tutti gli aspetti. Che dire di più ? Dobbiamo la possibilità di vedere questo film in Italia ( presentato solo in versione originale sottotitolata ) al coraggio ( tardivo, ma meglio che mai ) di un distributore che ci ha pensato sù ben nove mesi ( tanti ne sono passati dalla sua presentazione a Venezia 2016 ) ma , alla fine, ha deciso di rischiarci qualche soldo. Presentato, su tutto il territorio nazionale, in sole 18 sale (  6 o 700 quelle di  un qualsiasi " blockbuster " americano attualmente in circolazione ) lo si va a vedere quasi novelli " carbonari " ( a Milano in una ex sala parrocchiale trasformata in " d'essai " , come a Roma , quarant'anni fa , il leggendario " Labirinto " ). Non che a Venezia, lo scorso settembre, fosse stato accolto meglio.Assolutamente meritevole di alcuni " leoni d'oro" ( miglior film , migliore regia, migliore interprete femminile ) è ripartito con le tasche vuote. Non importa. Il tempo fa giustizia delle piccole miserie di questo mondo.Ma Maupassant sarebbe d'accordo su questa mia certezza ? .   


2 commenti:

  1. Mi piacciono da matti le rue recensioni. raccoglile in un libro. ne vale la pena!

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    1. Conosci qualche editore, Alessandra ? Sai come si fa ?( senza scherzi, io non saprei da dove cominciare ).Intanto, grazie per i complimenti che, venendo da te ,ho particolarmente gradito,

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