sabato 24 giugno 2017

5 film da " Cannes e dintorni ", a Milano

Finalmente, a compensare la penuria  in queste ultime settimane di nuovi film di un qualche interesse, è approdata a Milano ( credo che sia stata o sarà presto anche a Roma ) la navicella del Festival di Cannes. Carica di  alcuni dei tantissimi film presentati nelle varie sezioni ( Concorso, Quinzaine des réalisateurs , ecc.) offre annualmente la possibilità di gustare in anteprima qualche titolo che poi verrà immesso nel normale circuito durante la prossima stagione. Oppure, aspetto ancora più attraente, consente di vedere film che i distributori italiani, temendo che non rendano abbastanza in termini di soldoni, potrebbero essere tentati di sottrarre dalla nostra dieta di onnivori cinefili...
Ha aperto le danze, nel bellissimo cinema " Colosseo " ( debbo dire che negli anni Trenta sapevano costruire ancora delle autentiche " cattedrali " dello spettacolo, e lo schermo della sala principale è, come deve essere, enooorme ) l'ultimo film di Philippe Garrel, " L'amant d'un jour " , reduce dalla " Quinzaine". Garrel , che ha quasi settant'anni, ha cominciato a fare film a .. sedici, addirittura prima del fatidico 1968, forte di essere il figlio di un famoso regista ed attore, Maurice Garrel. A sua volta egli è padre di due giovani e quotati interpreti di teatro e di cinema, Louis ( l'attuale marito di Laetitia Casta ) ed Esther ( splendida protagonista proprio di quest'opera ). Regista che in genere non fa  concessioni agli aspetti più commerciali del cinema, spesso anche sceneggiatore, Garrel gira in bianco e nero, con pochi mezzi. Evidente è la sua spiccata propensione per le storie d'amore, di un romanticismo esasperato ancorchè apparentemente disinibite , per l'introspezione e l'analisi degli stati d'animo, dei minimi sommovimenti del cuore umano. Ne è uscita , anche questa volta, un'opera  suggestiva, vibrante, con inquadrature di rara e sapiente composizione, commovente quasi sempre per la sincerità che traspare. Vi è solo , occorre dirlo, in questa storia di una figlia  " in male d'amore " per una tormentata storia con il suo ragazzo e  che torna a vivere con il il padre il quale ha in casa  una nuova amante, qualche momento di stanchezza e di ripetitività dovuto ad una sceneggiatura non solidissima che affatica un pò anche lo spettatore meglio disposto. Ma Garrel sa filmare tremendamente bene, con morbido vigore, ed i suoi interpreti sono, per nostra fortuna, altrettanto efficaci. Esther Garrel ( nella parte della figlia ) è un gran bel volto, di sicuro avvenire. Louise Chevillotte ( l'amante del padre ) è anch'essa molto espressiva e non nega alla macchina da presa, direi a buon diritto, alcun centimetro di epidermide . Eric Caravaca  ( il padre , in pratica un " double"  del regista ) ha una recitazione delicata, tutta in sottotono. Un film che consiglio, anche perchè penso che , prima o poi,  lo faranno vedere sui nostri schermi. Interessante perchè getta un occhio sul " nuovo disordine amoroso " dei nostri tempi ma senza compiacimenti nè giudizi moralistici.

Secondo film che sono andato a vedere è " How to talk to girls at parties " (cioè, letteralmente, "come parlare con le ragazze alle feste ") di John Cameron Mitchell. Il regista( ed attore ) americano, non più giovanissimo ( 54 anni ) ma sempre giovanile nell'ispirazione trasgressiva e libertaria, questa volta ci porta in Inghilterra e più precisamente a Croydon, nella " Greater London ". Corre l'anno di grazia 1978, il primo " giubileo " della Regina Elisabetta, quando il paese era devastato dalla cattiva condotta dell'economia da parte del governo laburista ( di lì a poco sarebbe intervenuta, a raddrizzare le cose, una certa " dama di ferro " ) e una parte della gioventù, in aperta rottura con le generazioni precedenti, cercava ristoro nel rock " duro ", nella moda e nella filosofia " punk ". Enn ( diminutivo di Henry ) un simpatico ed intelligente ragazzotto proletario ( Alex Sharp, un volto nuovo ) abbastanza timido con le femmine, sognatore ed abile disegnatore di quelle " fanzines " musicali allora piuttosto diffuse, conosce e si innamora, ad una strana festa in una singolare casa un pò fuori mano, Wainwain ( " maggiorativo " di Wain... ). La ragazza , americana west coast ( Elle Fanning, anche lei relativamente poco conosciuta ) asettica e con una dizione perfetta ( di contro al "cockney" di Enn ed i suoi amici ) appartiene ad una bizzarra comunità, tra la  "setta " semisatanica e un avamposto fantascientifico venuto da un altro pianeta , impegnata in un misterioso " tour " europeo. Meglio non dire di più per non guastare le attese degli spettatori ( il film verrà sicuramente distribuito in Italia ) e anche perchè tutto sommato non è che una favola dei nostri tempi, senza pretesa di alcuna credibilità, un sogno ad occhi aperti. Ma ciò che conta è l'indubbia maestria del regista, la sua capacità di trovare un equivalente visivo molto accattivante alla scatenata musica dei " punk ", di rendere con humour  le peripezie di  " Henry " e dei suoi due altrettanti imbranati amici a contatto con la inquietante comunità di Wainwain. Niente di tremendamente originale ( dimenticavo, buona la caratterizzazione di Nicole Kidman nella " regina " dei punk, Bodicea ) ma più di un'ora e mezza di " insano " divertimento, belle musiche fragorosissime ma piacevole riscatto al pattume della odierna musica da discoteca. Un film che non segnerà certamente una svolta nella storia del cinema ma vi porterà in un clima di " Alice nel paese delle meraviglie " per bambini un pò cresciuti. Forse, quando uscirà da noi, meriterà che ci si torni con più calma.

E poi, il terzo giorno, ecco un autentico capolavoro senza ma e senza se. Non spreco spesso questo appellativo. Al cinema, di questi tempi, è già molto vedere una cosina spiritosa e garbata come il film di cui vi ho appena parlato qui sopra. Ci si accontenta, insomma, paghi di trascorrere novanta minuti in maniera intelligente. Se dico che " The Rider " ( " Il cavaliere " ) è un capolavoro, lo dico a ragion veduta. Certo, anche d'impeto, sull'onda dell'emozione che mi ha suscitato. Ma anche dopo averci riflettuto ed aver ricostruito tutti i passaggi di sceneggiatura, di montaggio, le inquadrature, il dialogo, di un film che riannoda sia con la migliore tradizione del cinema americano " classico " ( i Ford, gli Hawks, gli Huston perchè no ? ) che con il lascito del più problematico cinema,  sempre USA, degli anni '70 (  Scorsese, Cassavetes, Schatzberg ecc. ) mi sono nuovamente convinto che è un grande film . Un film ( distributori italiani attenti ! ) che sarebbe delittuoso non farci vedere nella prossima stagione solo perchè non ha attori conosciuti ( sono tutti non professionisti che interpretano sè stessi ) e parla quasi unicamente  di " rodeo " ( ricordate " Gli spostati " con Gable e Montgomery Clift ? ) di cavalieri e di cavalli. Con particolare riguardo a queste due categorie quando, per l'una e per l'altra, la loro parabola ascendente si è conclusa e occorre venire a patti con la dura realtà. Ma parla  anche di sogni, di speranze, di amicizia e di affetti familiari. Praticamente di tutto quello che conta, nella vita. Ma lo fa senza piagnistei ( le lacrime eccessive, ripensandoci, di " L'amant d'un jour ", vedi più sopra ). Con ciglio asciutto, dolcezza e forza al tempo stesso . Un film " virile " starei per dire, se non l'avesse scritto, diretto e prodotto,  una donna . Una piccola, giovane donna sino-americana che risponde al nome di Chloé Zhao ( ricordatevelo perchè ne sentirete parlare ). Questo è il suo secondo film, dopo " Songs my brother taught me ", del 2015, egualmente presentato nella prestigiosa sezione della " Quinzaine des réalisateurs ". " The Rider " la " Quinzaine " quest'anno l'ha vinta , conquistando il primo premio. Ma non esagero se dico che se fosse stato presentato nella competizione principale gli si sarebbe dovuto dare la Palma d'oro. Tanto questo film sa toccare con pudore - e vigore - le corde più segrete della nostra natura umana. E tanto lo fa con assoluta padronanza del mezzo cinematografico , senso del ritmo, veri personaggi che si muovono negli spazi sconfinati del Sud Dakota, inquadrature emozionanti ( che siano i cieli al tramonto, le distese di granoturco con lo sfondo delle montagne oppure un povero paraplegico che è stato un grande " cowboy " o un gruppo familiare in una dimessa " mobile home " ). Davvero eccitante  la visione di questo " The Rider ", pensando che è stato girato con quattro soldi e che si appresta ad ad avere un grande successo in patria e, speriamo, qui da noi. Una storia molto bella, dicevo , affascinante perchè è quasi un documentario o , piuttosto , una " fiction " che è però un documento di vita vera , vissuta. E l'arte, come sappiamo, insegue la vita , la trasfigura e ce la restituisce rendendola paradigmatica , unica ed emozionante. Proprio come fa questo " Rider ", sorpresa ed autentico regalo di Cannes 2017.

Poi, il quarto giorno, la delusione. L'" anticlimax " di un minifestival milanese che si stava svolgendo tutto sommato meglio del previsto. " Mobile Home " ( non credo che il titolo meriti una traduzione ) del francese, emigrato negli USA, Vladimir de Fontenay si rivela presuntuoso, immaturo e - quel che più importa - per lunghi tratti noioso. La protagonista, Ali ( nome improbabile per una vicenda che non si capisce dove sia ambientata, forse  a metà strada tra Canada e Stati Uniti ) è una " marginale ", al pari del patibolare compagno cui si unisce  in continue scorribande fatte di piccole truffe e  commerci poco legali ,  tra soste in pidocchiosi motel e vaghe speranze di avere un giorno una casa propria. Dimenticavo, con loro c'è anche un bambinello, educato alla dura scuola della vita dei " drifters " dalla coppia di cui sopra. Una materia, come si vede, sgradevole e insidiosa per un cineasta alle prime armi com'è il nostro de Fontenay  perchè richiederebbe - per evitare di farne occasione sia  di facile moralismo che di strisciante esaltazione - mano maestra, equilibrio di insieme . E , soprattutto, di un progetto estetico ben preciso ( mostrare, in maniera distaccata,  le difficoltà obiettive di una simile esistenza oppure porre l'accento sulle aspirazioni del personaggio principale, la ragazza Ali , nel tosto confronto con una realtà poco accomodante ? ). Un progetto al cui servizio porre una sceneggiatura, non dico di ferro , ma che almeno stia in piedi. Nulla , purtroppo- o troppo poco - di questo è dato intravedere nei cento minuti in cui dura il film. Il " partito preso " del regista ( co- sceneggiatore ed autore del soggetto,  tratto da un romanzo che mi è sconosciuto ) non è mai evidente, e questo inficia gravemente  quel tanto di empatia che deve stabilirsi, lo sappiamo, tra lo spettatore ed il film . Non riuscendo mai a sollevare  la figura della ragazza  da un bozzettismo anedottico,  de Fontenay ( bel nome , però ) si rivela assolutamente incapace di creare un personaggio credibile, magari sgradevole  (il cinema, come l'arte, non deve essere a tutti i costi edificante ) ma almeno  di carne e di sangue , sul quale soffermarci con interesse. Colpa, qui , occorre dirlo, anche dell'attrice che impersona Ali, tale Imogen Poots, un'inglesina  un pò troppo in carne che definirei- anche per una vaga somiglianza nel taglio degli occhi e nel sorriso - una Scarlett Johansson delle grandi praterie innevate ( quelle che si vedono nel film ). Poco artisticamente dotata, per nulla carismatica come è invece la sua illustre somigliante, non riesce assolutamente a caricarsi tutto il peso del film sulle sue spalle rotondette e a dargli almeno il senso di un ritratto di una ragazza di oggi, piena di ingiustificate speranze e travolta dalla durezza dei tempi. Ingarbugliata la sceneggiatura, la regia non brilla per particolare inventiva e non riesce a sollevare quasi mai il film su di un piano artisticamente attraente. Si intravede qualche qualità nel filmare le scene d'ambiente ( ci si chiederebbe altrimenti chi lo avrebbe invitato ad un festival internazionale ) ma troppo acerba , francamente, per consentire da dargli almeno la sufficienza. " Peut faire mieux ", come dicono i francesi. Rimandato ad un ulteriore sessione d'esame, diremmo noi.

Infine, l'ultimissimo giorno della rassegna milanese, il pubblico del " Colosseo " si è visto offrire il " premio speciale della Giuria " tra i film in concorso a Cannes. Era il bellissimo, ancorchè leggermente deprimente, film russo " Loveless " ( " Senza amore " ) dell'ormai affermato Andrey Zvyagintsev, di cui abbiamo visto il potente " Leviathan " nella stagione 2015/2016. Dovrebbe essere distribuito ( il condizionale è sempre d'obbligo in questi casi ) anche da noi nella prossima ( in Francia esce verso il 20 settembre ). Ne riparleremo quindi quando verrà il momento, anche perchè sono convinto che film così vadano visti almeno due volte per coglierne tutte le sottigliezze di inquadrature e di dialogo. Tanto il film è complesso nei temi trattati ( la trama, abbastanza semplice, nasconde però  vari " sub- testi " molto interessanti sulla Russia di oggi che meriterebbero ciascuno un film ) quanto fermo e  lineare nella cifra  stilistica , di grande rigore e formale precisione. Alle corte. Siamo, appunto, a cavallo del conflitto russo-ucraino di questi anni. Una coppia come tante altre, malassortita, ancorata per certi versi al retaggio del passato ma proiettata per altri e preminenti verso un avvenire sempre più senza punti di riferimento ideali, " senza amore ", sta per divorziare e mette in vendita la casa coniugale. L'uno e l'altra hanno già due relazioni di rimpiazzo- il marito ha addirittura messa incinta l'amante -  e tutto, diciamo così, andrebbe abbastanza bene , pur tra feroci ripicche e una totale lontananza spirituale tra i due, se non fosse che il figlio dodicenne , non resistendo allo strazio dei continui litigi tra i genitori, scappa di casa. E l'affannosa ricerca del fuggiasco, tra ritardi ed inefficienze della polizia e interventi di volontari dall'inquietante assetto paramilitare, occupa la seconda parte del film , di cui ovviamente non racconterò  l'emblematico finale. Di rara coerenza formale, girato superbamente da un grande uomo di cinema, con qualche ( ma forse è una prima impressione ) lungaggine di troppo quà e là in alcune inquadrature o sequenze , il film non è solo un incisivo dramma familiare. Esso è in realtà una impietosa radiografia di una società e di un regime che hanno dato ai cittadini-sudditi ( relativo ) benessere ma a prezzo di una totale desertificazione degli animi. Non c'è un solo personaggio del film ( ecco perchè il suo " coté " un pò deprimente ) nel quale trovare un barlume di umanità, a parte il povero ragazzo scomparso con il suo ingenuo desiderio di librarsi nel cielo abbandonando le miserie di questo mondo. Fotografia e musica entrambi di grande respiro. Interpretazione solida, soprattutto da parte dei personaggi maschili. Ma quelle donne ( egualmente brave le attrici che le interpretano ) sono davvero inquietanti nella loro superficiale determinazione verso la stabilità ed il benessere  ancor più che nel loro sostanziale smarrimento. Da brividi, e da rivalutare , nel confronto, società forse ormai altrettanto epidermiche ma ancora con qualche punto di riferimento come , tutto sommato, la nostra.


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