Dopo Pasqua i distributori italiani si sono divertiti, diciamo così, ad offrirci operine inconsistenti: filmetti italiani di scarso valore, blockbuster americani da evitare con cura, minuzzaglia di eterogenea provenienza. Per fortuna che esistono i DVD - ormai tecnicamente perfetti - da vedere sul proprio televisore o , per i più attrezzati, da proiettare su un bello schermo casalingo. Per la verità, non sono caldissimo su questo tipo di fruizione di un'opera cinematografica. Per me il cinema va gustato in sala, come una volta, come è sempre stato dai tempi dei Lumière, perchè l'immagine possa essere meglio percepita ( adoro gli schermi grandi e mi siedo sempre nelle prime file ). Ma soprattutto perchè la suggestione che ne deriva sia più piena e protetta, senza gli stimoli che anche involontariamente potreste ricevere tra le mura domestiche .
Ma, quando veramente nulla può attirarvi nelle accoglienti sale e salette - tra l'altro sempre più rare - della vostra città, anche un bel film del passato da rivedere, o da scoprire per la prima volta standosene comodamente a casa propria può, di tanto in tanto, soddisfare il vostro sano desiderio di cinema. Ed è così che nei giorni scorsi, in astinenza forzata da " novità " degne di nota, mi sono concentrato, in visione privata, su qualche vecchio film che mi era a suo tempo particolarmente piaciuto o che ero curioso di rivedere per constatare quanto " reggesse" al trascorrere degli anni. Questa della maggiore o minore resistenza all'usura del tempo, se è una prova che anche per le arti considerate " maggiori " ( letteratura, musica ecc. ) può dare qualche brutta sorpresa, per il cinema è a volte particolarmente crudele. Film osannati al momento della loro uscita rivelano , solo dopo pochi anni, tutti quei difetti di cui non ci eravamo resi conto a suo tempo. Storie che ci erano sembrate esemplari si manifestano, oggi, troppo legate ad una particolare ed ormai superata " atmosfera " (estetica, ideologica e quant'altro ) senza che riescano più a coinvolgerci pienamente. Le immagini, si dice comunemente, invecchiano presto. Ed i detrattori del cinema, coloro che non lo ritengono un' arte capace di sfidare il trascorrere del tempo, ne traggono linfa per l' opinione riduttiva che nutrono nei suoi confronti. Personalmente non condivido l'idea di una maggiore " debolezza " in sè dell' immagine cinematografica rispetto, ad esempio, alla parola scritta o ad un brano musicale. Esistono, più semplicemente, film che invecchiano male ed altri che invece si mantengono freschi ed efficaci indipendentemente ...dalla loro età.
Prendiamo " Io e Annie ", il film di Woody Allen del 1977 che ho rivisto qualche sera fa. Non provo a riassumerne la trama perchè troppo nota. E poi, a dir la verità, una trama vera e propria non c'è, tutto costruito com'è sui due personaggi principali. Quello di Woody, leggermente straripante nei suoi primi tentativi cinematografici, e quello non meno appariscente di Diane Keaton, cioè della Annie Hall, che fornisce il titolo al film nella sua versione originale. Un film di " situazioni " più che di sviluppi narrativi. Di stati d'animo, di brevi sensazioni, di " gag " fulminanti, a volte. Con molti " flash back ", un incedere a strappi, a salti temporali, per connessione di idee più che per una progressione cronologica della vicenda. Un film molto legato all' " aria dei tempi ", come si dice . Il femminismo, innanzitutto, tipico di quegli anni. Il mondo dello " show business ", il contrasto New York- California, la liberazione sessuale, le droghe, la psichiatria , la semiologia e tutte le altre " novità " che venivano affermandosi, avidamente consumate ed introiettate in una esistenza ludica, dispersiva e vagamente angosciata come quella dei due indimenticabili protagonisti. In presa diretta quasi con la vita nella "grande mela " prima che l' AIDS, la crescente insicurezza e il declino dello spazio cittadino richiamassero bruscamente alla realtà i festosi abitanti di SoHo o del Greenwich Village. New York al suo apice, insomma, in perfetta simbiosi tra spirito dei luoghi e comportamento dei protagonisti stessi. Quasi un documentario su come si viveva nell'anno di grazia 1977 al di là dell' Oceano ( e come , con qualche aggiustamento, qualcuno cercava di condurre la sua esistenza anche da noi ).
Eppure, pur con i limiti di una stretta aderenza ad una particolare temperie oggi o scomparsa o metabolizzata nella " normalità " quotidiana, il film resta bello, scoppiettante di salute cinematografica, perfettamente godibile. Come mai ? Direi perchè l'ambientazione ( ormai totalmente " storicizzata " e quindi non più debordante ) passa in secondo piano rispetto a quello che , quarant'anni dopo, abbiamo definitivamente assodato essere il vero tema dominante del cinema di Allen : l'impossibilità, per gli esseri umani, di una vera felicità che vada al di là dell'attimo fuggente di cui, essi, magari neanche si accorgono. Un tema sottilmente malinconico, prossimo a quello cecoviano del contrasto tra le nostre continue aspettative e l'apparente delusione di una vita da queste molto lontana e che trova il suo corollario nella provvisorietà e nella caducità della nostra stessa esistenza. L'uomo è un animale triste perchè pensa ed il pensiero, che è il nostro supremo tratto distintivo, è anche la nostra condanna e la causa della nostra continua insoddisfazione. Condanna ed insoddisfazione peraltro " dorate ", circonfuse - ci mostra Allen - dalla consapevolezza delle cose, spesso belle , che ci stanno intorno e dall'incontro, per quanto effimero, con altri esseri umani con i quali condividere momenti di gioia, di amicizia, di amore. Ed è tutto quanto resta- è scusate se è poco - di questa tenera, brillante e coinvolgente esperienza filmica. La gioia che nasce dall'umorismo di Woody, dalle sue battute fulminanti, dalla sua accattivante e buffa personalità. L'amicizia, che è spesso al cuore delle vicende che mette in scena e che dà calore e sollievo al nostro passaggio su questa terra. L'amore, infine. Il più splendido ed il più difficile dei sentimenti, quello che ci fa sentire maggiormente vicini all'assoluto e all'eternità. Eppure il più ingannevole ed effimero, egli sembra dirci. Ma anche quello di cui non potremo mai fare a meno : struggente e incisiva conclusione di quest' opera attraente, ben scritta e ben diretta, magnificamente interpretata.
Il pensiero, i sentimenti, l'amore.Sono, in estrema sintesi, tre motivi ricorrenti anche nel cinema di Rohmer. Vicino per certi aspetti, ma anche molto diverso da quello di Allen, con tutta evidenza. E non solo per la distanza che obiettivamente separa un cineasta americano venuto dal " cabaret " e dal teatro, giustamente preoccupato del successo e della redditività che debbono accompagnare i suoi film, da un intellettuale europeo di grande, severa austerità creatrice anche se unita a levità di tono ed estrema gradevolezza di stile.Ma soprattutto perchè Rohmer ha una visione più ottimista quanto alla nostra comune parabola terrena. Religioso ( anche se non scopertamente confessionale ) conosce perfettamente la fragilità e gli inganni dell'animo umano. Ma crede nel dono che gli uomini ( e , in particolare, le donne ) hanno di liberarsi dai loro errori, di ricominciare continuamente partendo da nuove basi. Se Allen è, in definitiva, un determinista che ritiene che sia il Fato, il destino, l' imponderabile, chiamatelo come vi pare, a governare la nostra esistenza ed i suoi continui ghirigori, il regista francese crede nel libero arbitrio, nella possibilità aperta a tutti di modificare la traiettoria della propria vita. I suoi personaggi- prevalentemente quelli femminili che egli predilige - spesso si ingannano, hanno programmi che non riescono a realizzare. Ma mai per un intervento superiore od " esterno ". Più semplicemente perchè erano sbagliate le premesse da cui partivano , perchè essi stessi , se solo avessero saputo meglio interrogare il cuore e la ragione, si sarebbero resi conto di quanto sfuggente o irragiungibile era il loro personale obiettivo. Ma, ed è questa la possibilità di autodeterminarsi, eccoli pronti il più delle volte a riprovarci su basi diverse, a rimettersi in gioco, ammaestrati dall'esperienza ( o, potrebbe dire qualcuno, ostinati nel riprodurre i loro errori). Un cinema " filosofico ", quello di Rohmer, per il rilievo che riveste il pensiero nel liberare, di volta in volta, i meccanismi narrativi e per lo spazio dedicato ai dialoghi : dispositivi verbali, questi ultimi, che assecondano o invece contraddicono le immagini che scorrono sotto i nostri occhi, perchè nei suoi film vi è un continuo rimpiattino tra verità e finzione, tra le attese dei personaggi e la nuda " fattualità " degli accadimenti.
Prendiamo questo " Racconto di Primavera ", il primo dei " Racconti delle quattro stagioni ", girati tra il 1989 ed il 1998, il terzo ciclo di opere di Rohmer dopo i " Racconti morali " ( 1962-1972 ) e " Commedie e proverbi " ( 1980 -1987 ). Jeanne , una professoressa, per l'appunto, di filosofia in un liceo parigino, incontra ad una serata Natacha, una ragazza più giovane e che vive con il padre divorziato. Invitata a trasferirsi provvisoriamente a casa della ragazza, Jeanne ( la quale pur avrebbe due appartamenti dove alloggiare, il suo e quello del suo amante temporaneamente assente ma non è, per circostanze diverse, invogliata a tornare in nessuno dei due ) accetta e passa, successivamente, un fine settimana con l'amica nella casa di campagna del padre di Natacha, Igor , un quarantenne smidollato e dongiovannesco che vi si reca a sua volta accompagnato dalla sua ultima " conquista ", Eve. Natacha sembra quasi spingere Jeanne tra le braccia di Igor nel malcelato disegno di liberarsi di Eve, che detesta cordialmente. O almeno questo è quanto crede la stessa Jeanne la quale , un po' per non assecondare supinamente i piani dell'amica e un po' per sopravvenuta irresolutezza, non cede alle " avances " del maturo padrone di casa e, congedatasi da Natacha , torna a casa sua. La protagonista del film , dunque, resiste al richiamo primaverile dell ' avventura, della " nuova partenza " e preferisce, con qualche rimpianto, richiudersi nel tran tran della propria esistenza ( una esistenza, lo capiamo, che non la soddisfa pienamente ma che veste i panni rassicuranti dell'abitudine ). L'ha tradita, in fondo, un eccesso di razionalità : il timore dell'ignoto, il convincimento o anche solo il sospetto di essere manipolata da Natacha, il desiderio di mantenere il controllo sulle proprie emozioni, mascherate da un facondo - e quindi significativo- eloquio logico-filosofico. L'ha tradita , in un certo senso, il pensiero, la sua troppa familiarità con le ipotesi, i ragionamenti astratti. " Qui trop parole, il se mesfait ", chi parla troppo si fa del male. E' l'antico proverbio in epigrafe a " Pauline alla spiaggia " dello stesso Rohmer, ma che potrebbe andar bene anche qui, come malinconica conclusione. Ma lo spettatore ( come il regista ) è convinto in realtà che la sfortunata esperienza ha fatto " crescere " Jeanne, indomita eroina del pensiero filosofico non disgiunto in realtà - lo vediamo nello sviluppo della vicenda - da una non troppo nascosta apertura verso il mondo dei sentimenti.
Difficile, me ne rendo conto mentre scrivo, disegnare tutti i percorsi di una vicenda complessa, molto " parlata " ma ricca anche- come sempre nei film dell'autore transalpino - di immagini significative e che fanno egualmente progredire l'azione. I film di Rohmer non si raccontano, come e più di ogni altro. Vanno visti, assaporati come un buon vino che sprigiona lentamente il suo aroma. Vi è paradossalmente in essi ( privi quasi sempre di accompagnamento musicale ) una musica nascosta che ne detta i tempi, i ritmi, la sottile geometria dei fatti , dei ragionamenti, dagli stati d'animo esposti. Meticolosamente scritti e studiati a tavolino, sono congegni perfettamente funzionanti. Ma diventano poi , con la forza, il rigore , l'ascesi quasi delle immagini ed il contributo di un gruppo di straordinari interpreti, organismi vivi, pulsanti, forniti di una intensità tanto più sorprendente quanto racchiusa in una estrema parsimonia di mezzi. Film poveri di quei guizzi improvvisi, quei sussulti, tipici - per tornare al discorso di poco fa- del cinema di Allen o di altri artigiani della commedia cinematografica. Ma film di un perfetto, apollineo equilibrio formale , sotto il quale cova - possiamo davvero dire - il fuoco dei sentimenti, delle passioni che animano i loro personaggi . Anche " Racconto di primavera " non sfugge alla regola aurea di tutte le opere di questo regista : levigatezza esterna e fervore sotterraneo. Molto buona , come sempre , la recitazione di attori poco conosciuti ma felicemente aderenti ai loro personaggi, con una menzione speciale per Florence Darel ( una Natacha tutto giovanile trepidare , con un pizzico di monelleria inquietante ) e Anne Teyssèdre ( una Jeanne di grande , trattenuta sensualità sotto la contegnosa apparenza ).Cercate questo " Racconto di Primavera ", aprite il vostro cuore alla sua grande suggestione,ora che siamo ancora nella stagione adatta ed un tripudio di fiori e di colori fa capolino, a tratti, sotto il bel cielo delle nostre città e delle nostre campagne.
Prendiamo " Io e Annie ", il film di Woody Allen del 1977 che ho rivisto qualche sera fa. Non provo a riassumerne la trama perchè troppo nota. E poi, a dir la verità, una trama vera e propria non c'è, tutto costruito com'è sui due personaggi principali. Quello di Woody, leggermente straripante nei suoi primi tentativi cinematografici, e quello non meno appariscente di Diane Keaton, cioè della Annie Hall, che fornisce il titolo al film nella sua versione originale. Un film di " situazioni " più che di sviluppi narrativi. Di stati d'animo, di brevi sensazioni, di " gag " fulminanti, a volte. Con molti " flash back ", un incedere a strappi, a salti temporali, per connessione di idee più che per una progressione cronologica della vicenda. Un film molto legato all' " aria dei tempi ", come si dice . Il femminismo, innanzitutto, tipico di quegli anni. Il mondo dello " show business ", il contrasto New York- California, la liberazione sessuale, le droghe, la psichiatria , la semiologia e tutte le altre " novità " che venivano affermandosi, avidamente consumate ed introiettate in una esistenza ludica, dispersiva e vagamente angosciata come quella dei due indimenticabili protagonisti. In presa diretta quasi con la vita nella "grande mela " prima che l' AIDS, la crescente insicurezza e il declino dello spazio cittadino richiamassero bruscamente alla realtà i festosi abitanti di SoHo o del Greenwich Village. New York al suo apice, insomma, in perfetta simbiosi tra spirito dei luoghi e comportamento dei protagonisti stessi. Quasi un documentario su come si viveva nell'anno di grazia 1977 al di là dell' Oceano ( e come , con qualche aggiustamento, qualcuno cercava di condurre la sua esistenza anche da noi ).
Eppure, pur con i limiti di una stretta aderenza ad una particolare temperie oggi o scomparsa o metabolizzata nella " normalità " quotidiana, il film resta bello, scoppiettante di salute cinematografica, perfettamente godibile. Come mai ? Direi perchè l'ambientazione ( ormai totalmente " storicizzata " e quindi non più debordante ) passa in secondo piano rispetto a quello che , quarant'anni dopo, abbiamo definitivamente assodato essere il vero tema dominante del cinema di Allen : l'impossibilità, per gli esseri umani, di una vera felicità che vada al di là dell'attimo fuggente di cui, essi, magari neanche si accorgono. Un tema sottilmente malinconico, prossimo a quello cecoviano del contrasto tra le nostre continue aspettative e l'apparente delusione di una vita da queste molto lontana e che trova il suo corollario nella provvisorietà e nella caducità della nostra stessa esistenza. L'uomo è un animale triste perchè pensa ed il pensiero, che è il nostro supremo tratto distintivo, è anche la nostra condanna e la causa della nostra continua insoddisfazione. Condanna ed insoddisfazione peraltro " dorate ", circonfuse - ci mostra Allen - dalla consapevolezza delle cose, spesso belle , che ci stanno intorno e dall'incontro, per quanto effimero, con altri esseri umani con i quali condividere momenti di gioia, di amicizia, di amore. Ed è tutto quanto resta- è scusate se è poco - di questa tenera, brillante e coinvolgente esperienza filmica. La gioia che nasce dall'umorismo di Woody, dalle sue battute fulminanti, dalla sua accattivante e buffa personalità. L'amicizia, che è spesso al cuore delle vicende che mette in scena e che dà calore e sollievo al nostro passaggio su questa terra. L'amore, infine. Il più splendido ed il più difficile dei sentimenti, quello che ci fa sentire maggiormente vicini all'assoluto e all'eternità. Eppure il più ingannevole ed effimero, egli sembra dirci. Ma anche quello di cui non potremo mai fare a meno : struggente e incisiva conclusione di quest' opera attraente, ben scritta e ben diretta, magnificamente interpretata.
Il pensiero, i sentimenti, l'amore.Sono, in estrema sintesi, tre motivi ricorrenti anche nel cinema di Rohmer. Vicino per certi aspetti, ma anche molto diverso da quello di Allen, con tutta evidenza. E non solo per la distanza che obiettivamente separa un cineasta americano venuto dal " cabaret " e dal teatro, giustamente preoccupato del successo e della redditività che debbono accompagnare i suoi film, da un intellettuale europeo di grande, severa austerità creatrice anche se unita a levità di tono ed estrema gradevolezza di stile.Ma soprattutto perchè Rohmer ha una visione più ottimista quanto alla nostra comune parabola terrena. Religioso ( anche se non scopertamente confessionale ) conosce perfettamente la fragilità e gli inganni dell'animo umano. Ma crede nel dono che gli uomini ( e , in particolare, le donne ) hanno di liberarsi dai loro errori, di ricominciare continuamente partendo da nuove basi. Se Allen è, in definitiva, un determinista che ritiene che sia il Fato, il destino, l' imponderabile, chiamatelo come vi pare, a governare la nostra esistenza ed i suoi continui ghirigori, il regista francese crede nel libero arbitrio, nella possibilità aperta a tutti di modificare la traiettoria della propria vita. I suoi personaggi- prevalentemente quelli femminili che egli predilige - spesso si ingannano, hanno programmi che non riescono a realizzare. Ma mai per un intervento superiore od " esterno ". Più semplicemente perchè erano sbagliate le premesse da cui partivano , perchè essi stessi , se solo avessero saputo meglio interrogare il cuore e la ragione, si sarebbero resi conto di quanto sfuggente o irragiungibile era il loro personale obiettivo. Ma, ed è questa la possibilità di autodeterminarsi, eccoli pronti il più delle volte a riprovarci su basi diverse, a rimettersi in gioco, ammaestrati dall'esperienza ( o, potrebbe dire qualcuno, ostinati nel riprodurre i loro errori). Un cinema " filosofico ", quello di Rohmer, per il rilievo che riveste il pensiero nel liberare, di volta in volta, i meccanismi narrativi e per lo spazio dedicato ai dialoghi : dispositivi verbali, questi ultimi, che assecondano o invece contraddicono le immagini che scorrono sotto i nostri occhi, perchè nei suoi film vi è un continuo rimpiattino tra verità e finzione, tra le attese dei personaggi e la nuda " fattualità " degli accadimenti.
Prendiamo questo " Racconto di Primavera ", il primo dei " Racconti delle quattro stagioni ", girati tra il 1989 ed il 1998, il terzo ciclo di opere di Rohmer dopo i " Racconti morali " ( 1962-1972 ) e " Commedie e proverbi " ( 1980 -1987 ). Jeanne , una professoressa, per l'appunto, di filosofia in un liceo parigino, incontra ad una serata Natacha, una ragazza più giovane e che vive con il padre divorziato. Invitata a trasferirsi provvisoriamente a casa della ragazza, Jeanne ( la quale pur avrebbe due appartamenti dove alloggiare, il suo e quello del suo amante temporaneamente assente ma non è, per circostanze diverse, invogliata a tornare in nessuno dei due ) accetta e passa, successivamente, un fine settimana con l'amica nella casa di campagna del padre di Natacha, Igor , un quarantenne smidollato e dongiovannesco che vi si reca a sua volta accompagnato dalla sua ultima " conquista ", Eve. Natacha sembra quasi spingere Jeanne tra le braccia di Igor nel malcelato disegno di liberarsi di Eve, che detesta cordialmente. O almeno questo è quanto crede la stessa Jeanne la quale , un po' per non assecondare supinamente i piani dell'amica e un po' per sopravvenuta irresolutezza, non cede alle " avances " del maturo padrone di casa e, congedatasi da Natacha , torna a casa sua. La protagonista del film , dunque, resiste al richiamo primaverile dell ' avventura, della " nuova partenza " e preferisce, con qualche rimpianto, richiudersi nel tran tran della propria esistenza ( una esistenza, lo capiamo, che non la soddisfa pienamente ma che veste i panni rassicuranti dell'abitudine ). L'ha tradita, in fondo, un eccesso di razionalità : il timore dell'ignoto, il convincimento o anche solo il sospetto di essere manipolata da Natacha, il desiderio di mantenere il controllo sulle proprie emozioni, mascherate da un facondo - e quindi significativo- eloquio logico-filosofico. L'ha tradita , in un certo senso, il pensiero, la sua troppa familiarità con le ipotesi, i ragionamenti astratti. " Qui trop parole, il se mesfait ", chi parla troppo si fa del male. E' l'antico proverbio in epigrafe a " Pauline alla spiaggia " dello stesso Rohmer, ma che potrebbe andar bene anche qui, come malinconica conclusione. Ma lo spettatore ( come il regista ) è convinto in realtà che la sfortunata esperienza ha fatto " crescere " Jeanne, indomita eroina del pensiero filosofico non disgiunto in realtà - lo vediamo nello sviluppo della vicenda - da una non troppo nascosta apertura verso il mondo dei sentimenti.
Difficile, me ne rendo conto mentre scrivo, disegnare tutti i percorsi di una vicenda complessa, molto " parlata " ma ricca anche- come sempre nei film dell'autore transalpino - di immagini significative e che fanno egualmente progredire l'azione. I film di Rohmer non si raccontano, come e più di ogni altro. Vanno visti, assaporati come un buon vino che sprigiona lentamente il suo aroma. Vi è paradossalmente in essi ( privi quasi sempre di accompagnamento musicale ) una musica nascosta che ne detta i tempi, i ritmi, la sottile geometria dei fatti , dei ragionamenti, dagli stati d'animo esposti. Meticolosamente scritti e studiati a tavolino, sono congegni perfettamente funzionanti. Ma diventano poi , con la forza, il rigore , l'ascesi quasi delle immagini ed il contributo di un gruppo di straordinari interpreti, organismi vivi, pulsanti, forniti di una intensità tanto più sorprendente quanto racchiusa in una estrema parsimonia di mezzi. Film poveri di quei guizzi improvvisi, quei sussulti, tipici - per tornare al discorso di poco fa- del cinema di Allen o di altri artigiani della commedia cinematografica. Ma film di un perfetto, apollineo equilibrio formale , sotto il quale cova - possiamo davvero dire - il fuoco dei sentimenti, delle passioni che animano i loro personaggi . Anche " Racconto di primavera " non sfugge alla regola aurea di tutte le opere di questo regista : levigatezza esterna e fervore sotterraneo. Molto buona , come sempre , la recitazione di attori poco conosciuti ma felicemente aderenti ai loro personaggi, con una menzione speciale per Florence Darel ( una Natacha tutto giovanile trepidare , con un pizzico di monelleria inquietante ) e Anne Teyssèdre ( una Jeanne di grande , trattenuta sensualità sotto la contegnosa apparenza ).Cercate questo " Racconto di Primavera ", aprite il vostro cuore alla sua grande suggestione,ora che siamo ancora nella stagione adatta ed un tripudio di fiori e di colori fa capolino, a tratti, sotto il bel cielo delle nostre città e delle nostre campagne.
Grazie, è una piacevole parentesi leggere le sue riflessioni. Spero di trovarli, a presto.
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