Vi siete chiesti perchè, al di là di tante altre ed ovvie considerazioni, negare certi diritti ad una determinata categoria di esseri umani sia sommamente stupido e controproducente ? Limitare , attraverso leggi od anche solo prassi, credenze, pregiudizi e quant'altro, le possibilità di sviluppo di un gruppo o di una minoranza ( quando non, addirittura, pensando alle donne, di una buona metà di noi stessi ) è peggio che un crimine : è una sciocchezza. Oltre che violare il dovere universale di riconoscere ed amare il tuo prossimo , significa privarsi del capitale di intelligenza, di sensibilità e di coraggio che quelle persone sono in grado di conferire vantaggiosamente per il bene comune, per l'avanzamento della nostra società. Quanto ho appena detto, mi rendo conto, potrebbe essere visto come un mero approccio "utilitaristico" ad una questione - quella dei diritti umani e dei diritti civili - che va sicuramente affrontata da versanti più alti, umanistici, religiosi, filosofici. Ma che non credo immiserisca la questione stessa, la abbassi cioè ad un calcolo puramente economico e pratico. In realtà, che tutti gli uomini ( e tutte le donne ) siano eguali tra loro e debbano godere di pari dignità e degli stessi diritti, se ci si fa caso, è proprio la ragione, il buon senso , l'istinto, che ce lo dicono prima ancora che intervengano considerazioni sentimentali o ideologiche. Che poi non succeda sempre così e che ancora oggi permangano discriminazioni, muri e separazioni, ciò è dovuto a varie circostanze di natura socio-politica ma anche, mi sentirei di dire, alla " matta bestialitate " che alligna talvolta quaggiù. E contro quest'ultima, la lotta rimane sempre aperta.
Di tutte le discriminazioni, di tutti tentativi storicamente posti in essere ( e che ancora riaffiorano ) per dare vita a forme di sviluppo separate tra gli esseri umani, particolarmente singolare ed assurdo mi è sempre sembrato quello fondato sul colore della pelle; non uso il termine " razza " perchè scientificamente inesistente ed umanamente aberrante . Paesi civilissimi come gli Stati Uniti d' America, lo dicevamo qui la settimana scorsa, hanno avuto in una determinata epoca responsabilità non indifferenti a tale riguardo. Se pensiamo che i diritti civili ai non-bianchi sono stati riconosciuti in buona parte del Sud solo negli anni ' 60 del secolo scorso, cento anni dopo l'abolizione della schiavitù, comprendiamo facilmente come questa risulti una ferita non completamente rimarginata nel tessuto di quella nazione.
Proprio da quella situazione, da quel preciso momento storico, prende felicemente le mosse anche il bel film di Theodore Melfi , " Hidden Figures ", in Italia " Il diritto di contare ", uscito negli " States" lo scorso inverno ed in Europa da qualche settimana. Chi lo ha già visto o ne ha sentito parlare tramite la critica che ha finito coll'evidenziarne più le manchevolezze che i pregi potrebbe stupirsi apprestandosi a leggere che lo consiglio per un paio d'ore di sano ed onesto divertimento. Ma chi l'ha detto che, sullo schermo, solo i capolavori ( o presunti tali ) abbiano diritto di cittadinanza ? Il cinema , spettacolo squisitamente popolare, ha bisogno per sopravvivere di una folta schiera di discreti film, di valore medio, leali con il pubblico e che sollecitino- perchè no - i suoi buoni sentimenti. Da un contorno di opere siffatte, in un terreno potenzialmente propizio, possono poi più facilmente staccarsi film che soddisfino aspettative maggiori. Simenon e Agatha Christie- se guardiamo il campo della scrittura - non potevano rivaleggiare con Proust o Virginia Woolf ma la loro funzione di " dissodatori " del gusto del lettore medio in qualche modo la hanno svolta ed il loro posticino nella letteratura del Novecento presumo che se lo siano meritati, almeno per la vivacità e la sottigliezza del loro stile narrativo.
Sia dunque reso merito ad un solerte artigiano ( anche quando non propriamente artista ) quale si è testè rivelato questo Melfi. Regista di documentari e di serie televisive, sceneggiatore , produttore, egli non mi sembra più giovanissimo e con il suo ultimo film potrebbe anche aver toccato il suo apice, per definizione mai più riproducibile. Che importa ? " Il diritto di contare ", ultimo tra una coorte di film apparsi in questa stagione ed ambientati tra afro-americani, ai giorni nostri o nel Sud segregazionista di una volta, non ha eccessive ambizioni. Astutamente inserito nel filone predetto- che, dopo le lamentele agli Oscar dello stesso anno , sta facendo razzia di premi e sembra quasi provvisoriamente concludere l'era dell' orgoglio " black " nello spettacolo, manifestatosi negli anni della presidenza Obama - vuole rileggere una pagina di storia poco nota della "guerra fredda ", mettendo in luce l'eccezionale contributo dei neri ai successi degli USA nella corsa al volo spaziale. Ma vuole anche, più genericamente, raccontare una di quelle storie che al pubblico americano, sia al cinema che a teatro o in letteratura, piacciono tantissimo. Una " success story ", una vicenda che mostri dei personaggi che, superando le iniziali difficoltà, arrivino alla vetta. E ci arrivino onestamente, per i loro meriti finalmente riconosciuti, impegnandosi seriamente, con gioia ed ottimismo . Ma tutto questo, qualcuno mi dirà , non "sente" terribilmente di un " sogno americano " divenuto un po' stantio e nel quale è divenuto difficile credere dopo tutto quello che è successo ? Può darsi - mi sento di rispondergli - ma è da molto tempo che gli americani hanno perso la loro innocenza. Ed è forse per questo che, da sempre, la inseguono sullo schermo. E non è detto che i buoni titoli della loro cinematografia siano necessariamente quelli ( ancorchè pregevoli ) in cui quell'innocenza, alla fine, non viene ritrovata. Dai film cosiddetti " a lieto fine " possono evincersi notazioni interessanti, sentimenti non banali, spunti per ulteriori riflessioni. Grande Paese, dove il Male fiancheggia il Bene, l' America ha anche un " grande " cinema in cui può rinvenirsi di tutto, se solo lo si voglia cercare.
Torniamo, come è giusto, alla nostra vicenda di " gente di colore " in uno Stato del Sud a cavallo tra i '50 ed i '60 .Personaggi principali tre donne, due sulla quarantina , una sui trenta. Bravissime a scuola hanno potuto studiare , andare all' Università, venire assunte alla NASA ( l' Agenzia nazionale per il volo spaziale ) per la loro abilità nel calcolo matematico : si stanno infatti mettendo a punto satelliti , razzi e navicelle spaziali le cui orbite e traiettorie di volo necessitano di calcoli complessi ed ancora da eseguirsi a mano, i calcolatori elettronici sono, almeno all'inizio del racconto, di là da venire. Autentici cervelli scientifici, le tre hanno però l'handicap di essere donne ( ricordate il mito della brava massaia americana ? ) ed il torto di essere nere. La NASA ha sede in Virginia , Stato ancora segregazionista. Scienziate o no, le tre colleghe di lavoro ( una poi è davvero molto carina ) rischiano di farsi arrestare dalla polizia se trovate ferme sulla strada per un guasto alla loro vettura. E una volta sul luogo di lavoro subiscono tante piccole vessazioni, dalle toilettes " per gente di colore " situate ad un chilometro di distanza al bollitore per la pausa-caffè anch'esso rigorosamente differenziato, per bianchi e non. Ma soprattutto, vittime di una " doppia emarginazione ", di genere e di colore, non sono adeguatamente valorizzate per le loro effettive capacità. Addirittura la più brava delle tre, straordinaria mente matematica, è adibita a complicatissimi ma esattissimi calcoli che vengono poi utilizzati senza che alcun merito le venga attribuito. Lo stereotipo della donna nera, belloccia e servizievole, da destinarsi preferibilmente a lavori di segreteria, trionfa sovranamente.
Ci vorrà un momento di grave crisi nella NASA- con i Russi che riescono per primi a mandare brevemente un uomo nello spazio - perchè il talento delle tre venga finalmente riconosciuto ed impiegato . La "mente matematica", che nel frattempo ha perfino trovato l'amore, partecipa in modo determinante al successo USA di un primo volo orbitale nella Storia ( John Glenn,1962 ). La più anziana diventa a sua volta programmatrice e capo-team delle addette al potente calcolatore elettronico nel frattempo installato presso la sede dell' Agenzia. La più giovane , infine, sarà la prima donna di colore a laurearsi in ingegneria in una prestigiosa Università fino ad allora riservata ai bianchi. Sotto i colpi di maglio dell' Amministrazione Kennedy prima , e di quella Johnson dopo, fiancheggiate dal carismatico Martin Luther King, la segregazione razziale ha ormai i giorni contati.
Una storia semplice, potrebbe sembrare quasi una favoletta se, ai dimentichi che essa non è frutto di fantasia ma una vicenda di vita vissuta , i titoli di coda del film non mostrassero le tre vere donne che erano impersonate dalle attrici nel film, una delle quali ha oggi la ragguardevole età di 98 anni ! Realtà, dunque e non finzione , anche se la storia è stata" emblematizzata ", per così dire, allo scopo di celebrare l'ascesa delle donne di colore nella " America amara " di quegli anni.
Con una traiettoria opposta a quella di " Loving ", il bellissimo film di cui abbiamo parlato l'ultima volta, " Il diritto di contare " va dunque dalla vicenda particolare ( le tre " scienziate " ) ad un quadro di insieme che ci riporta ad un preciso momento storico, alle speranze e ai timori della gente di colore che attendeva, con maggiore o minore pazienza, la propria emancipazione dai lacci del pregiudizio e della ignoranza. Certo, proprio questa tela di fondo rimane qui un pò sbiadita, poco chiara nelle forze in campo,talvolta perfino edulcorata ( non si vede mai un vero gesto di violenza o di intolleranza, i poliziotti od i giudici bianchi sono solo un pò burberi quanto basta per ricordare di che stiamo parlando ma poi si ispirano ad una saggezza e ad un pragmatismo, in fondo, " politically correct " e potremmo rischiare di sentirci chiedere da uno spettatore poco informato : " ma allora dov'era il problema ? "). Sono difetti, non vi è dubbio, che non permettono di considerarlo un film autenticamente storico, da inserire in una tesi di laurea sul segregazionismo USA , per intenderci. Ma un film, questo sì, tranquillamente rievocativo del nucleo centrale della questione e perfino onestamente divulgativo, potrei dire, di un pezzo di storia americana. Con le vicende della Nasa che sono probabilmente vere perchè autentiche " inside stories ", visto che le raccontano le stesse tre protagoniste. E che il film riprende con una buona sceneggiatura, un dialogo a tratti spiritoso, personaggi di contorno che non sono semplici " macchiette ", a cominciare dal boss del Progetto Mercury- quello che mandò Glenn nello spazio- finemente interpretato da un redivivo Kevin Costner. Le tre ragazze " in distress " , di cui non ricordo più il nome ( ma la più giovane e carina faceva la " pupa " dello spacciatore cubano in " Moonlight ", anche lui qui in una particina ) sono molto brave e simpatiche. Vedendole vivere, muoversi, correre al lavoro, impegnarsi anima e corpo nel loro compito, bersagliate dallo sguardo indifferente o di generica, generale disapprovazione dei tanti bianchi maschi che le circondano e che sono probabilmente tutti al di sotto di loro, torna in mente l'assunto con cui ho iniziato l'odierna noterella. Discriminare, ignorare, o peggio disprezzare e tenere in subordine, donne o neri, appartenenti a questa o quella minoranza o diverso orientamento che sia, è sempre cosa pessima e ingiusta sul piano etico Spesse volte può essere un gravissimo errore su quello pratico, quando si finisce col perdere un potenziale umano enorme. E non solo per le risorse che non vengono inserite secondo le loro effettive capacità nel ciclo economico-produttivo. Ma perchè l'umanità ha bisogno della diversità, degli opposti, della contrapposizione come stimolo per un continuo superamento e miglioramento di sè stessa. Se si procede ad escludere ( le donne , i neri , i diversi ecc. ) essa si omogeneizza ma si impoverisce.
Ben fotografato, con ottime scenografie e costumi, il film è diretto in modo dignitoso anche se non particolarmente inventivo. Avrebbe necessitato di uno sguardo più personale, certamente ( pensiamo alla libertà di ispirazione evidenziata da Jeff Nichols in " Loving " ). Definirlo, come qualcuno ha fatto, semplicemente " illustrativo " , mi sembra però troppo severo. Se incominciamo a deprimere gli artigiani coscienziosi e sinceri come il Melfi di "Il diritto di contare " , dove metteremo i registi pretenziosi ed insinceri che , ogni tanto, disturbano i nostri sogni di ingenui ma affezionati fruitori di ombre cinematografiche ?
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