Ho detto altre volte, qui, che un film ( al pari di una commedia o di un dramma, un libro, un brano di musica, un quadro ) deve saper parlare non solo alla nostra mente, che è facilmente ricettiva verso le cose intelligenti, nuove e stimolanti, ma anche e soprattutto al nostro cuore. Occorre, insomma, che risvegli le nostre emozioni, ci coinvolga, catturi il nostro spirito perché questo entri in una sorta di comunicazione con l'anima, il soffio vitale che ispira ( o dovrebbe ispirare ) l'autore, regista o sceneggiatore che sia . Solo così, io credo, l'opera d'arte - ed il cinema è arte, la forma artistica più autenticamente popolare che vi sia - raggiunge il suo fine. Che è quello di risvegliare i nostri sentimenti, consolarci, accompagnarci per un tratto di strada nel difficile cammino della vita.
Sono, queste, riflessioni abbastanza scontate ma che si ripropongono ogni volta che vedo un film cui sento di poter aderire sul piano puramente intellettuale ma che tradisce poi le sue intenzioni a livello di risultato estetico, di trasfusione di quelle idee nel prodotto che si offre , in ultima analisi, al mio sguardo ed alle mie sensazioni. Fenomeno purtroppo non infrequente, specie di questi tempi. Tempi in cui le idee ci sarebbero, ma poi la capacità di ricavarne qualcosa di convincente sul piano cinematografico alcune volte latita e ci lascia - come dicono i francesi- "sulla nostra fame", cioè in una perenne attesa che non può mai venire soddisfatta. Nella speranza, magari, di occasioni più propizie.
Prendiamo " Moonlight", il film che, alla cerimonia degli Oscar e nel modo rocambolesco che sappiamo, è stato proclamato proprio sette giorni or sono il miglior film del 2016. La vicenda, articolata in tre parti, corrispondenti ciascuna ad una età e ad un momento particolarmente significativo vissuto dal protagonista, ci conduce nella Miami di questi ultimi anni. Non quella delle spiagge di lusso , dei grandi alberghi e del " beautiful people ". Piuttosto quella meno conosciuta ma terribilmente vera delle periferie tormentate dalla povertà, l'emarginazione razziale, la violenza e la droga. In questo panorama così poco accattivante siamo chiamati a seguire l'evoluzione, l'apprendistato individuale e sociale di Chiron, un ragazzino nero orfano di padre, rimasto con una madre dispotica e cocainomane, gentile e taciturno, oggetto di scherno e di continue vessazioni in un mondo "macho " e che vede con crescente sospetto la sua " diversità ". Cresciuto avendo a modello un " dealer " cubano, duro di modi ma di ottima disposizione d'animo che lo prende a ben volere ma che presto uscirà di scena, Chiron fattosi adulto cercherà dapprima di mimetizzarsi nell' ambiente circostante, diventando a sua volta uno spacciatore di successo, tutto muscoli e sguardo feroce. Ma alla fine capirà che non vi è via d'uscita da un mondo siffatto - dal nostro mondo- se non attraverso la pietà verso sé stessi e gli altri, la condivisione dei sentimenti, l'amore, la serena accettazione di ciò che autenticamente siamo e delle ragioni profonde che ne sono alla base.
Difficile non aderire all'assunto del film e non condividere il percorso iniziatico di Chiron bambino, adolescente e giovane adulto tra le difficoltà della vita. Tema e ambientazione non sono nuovissimi , almeno da Dickens in poi, ma si fanno seguire sempre con interesse ; specie quando siano esposti con chiarezza e vigore sufficienti. Il nostro sostegno, diremmo quasi il nostro " tifo "per i giovani protagonisti di storie del genere, come per questo di " Moonlight ", è dato generalmente per scontato e ci si attende solo di vedere attraverso quali passaggi la storia evolva verso una tranquillizzante palingenesi.
Ma, se queste erano le aspettative, o almeno gli auspici, del regista-sceneggiatore, l'afroamericano non ancora quarantenne Barry Jenkins al suo secondo lungometraggio, debbo dire che ad una istintiva simpatia dello spettatore per il suo personaggio principale non fa seguito poi alcuna effettiva immedesimazione nelle " ragioni " del medesimo, che rimangono troppo generiche , troppo irrisolte per catturare la nostra emozione estetica. Se la prima delle tre parti del film ( Chiron bambino ed il suo sodalizio con lo spacciatore Juan ) è anche la migliore per una certa freschezza di toni- non supportati peraltro a dovere dalle esitazioni e dalle ingenuità di una regia abbastanza accademica - la seconda ( Chiron adolescente e la presa di coscienza della sua omosessualità ) segue sentieri già battuti mille volte incespicando continuamente nella prevedibilità e scarsa significanza di molte scene. La terza, infine ( Chiron divenuto a sua volta un piccolo " boss " che ritorna a Miami per rivedere il primo ed unico amore della sua vita ) è francamente deludente e noiosa. Peccato davvero che una storia potenzialmente interessante sia stata trattata con tanta povertà di ispirazione e di mezzi espressivi ( faccio appena salvi il personaggio di Juan, interpretato con intelligenza da Mahatma Alì, che ha avuto l' Oscar per il miglior attore non protagonista, e il musetto simpatico del bambino che interpreta Chiron , sempre nel primo episodio ). Troppo lungo, il film sente maledettamente la sua derivazione teatrale. A far bene, il regista avrebbe dovuto avere il coraggio di condensare la vicenda, renderla più serrata, eliminando l'eccessivo sentimentalismo che è fatalmente in agguato in storie del genere. Ne avrebbero certamente guadagnato e la descrizione ambientale, troppo molle ed edulcorata, e lo spessore, insufficiente, del personaggio principale. Siamo intellettualmente dalla parte di Chiron, in definitiva , ma non trepidiamo per lui, non vi è vera emozione nei suoi confronti . E questo, francamente, un po' ci dispiace.
Stessa storia - facile adesione intellettuale ma scarsa " presa " emozionale - per il secondo dei film di questa settimana. Quel " Toni Erdmann " ( da noi, curiosamente, " Vi presento ecc. " ) che la giovane ma già sperimentata regista germanica Marion Ade ha concepito e diretto lavorandoci, pare, per ben tre anni o anche qualcosa di più. E che, presentato la scorsa primavera a Cannes, vi ha riscosso i favori della più gran parte della critica internazionale . Scambiato, almeno a tratti, dal pubblico per un film umoristico - a giudicare almeno dalle frequenti risatine che si udivano nella sala dell' " Eliseo " di Milano dove l'ho visto in questi giorni - è in verità un 'opera piuttosto amara, una severa radiografia della nostra epoca. O almeno della crescente infelicità che i troppi beni materiali di cui disponiamo, o se volete la continua ricerca dell'appagamento dei sensi e la brama di potere che ad essi si accompagna, hanno ormai contribuito a diffondere. Ricerca e brama che - ecco la cornice ambientale del film - il dilagare delle multinazionali in Europa, le loro pratiche ed i comportamenti interpersonali che ad esse ineriscono esaltano vieppiù. Sicchè, come dice nel film Wilfried, alias Toni Erdmann, "abbiamo finito col ridurre la nostra vita ad un elenco di cose da fare, dimenticandoci dell'attimo, cioè della vita stessa ". Ines, sua figlia ( una sensibile e brava Sandra Huller ) lavora a Bucarest come consulente, al servizio appunto di una multinazionale incaricata di ristrutturare società ed impianti industriali non più in linea con le " performance " che ci si attende da essi. Compito, questo, svolto con spietata fermezza e un bel disprezzo per le implicazioni umane sottostanti , in un ambiente ( i paesi dell' Est ex comunista ) frastornato dall' improvviso benessere e vampirizzato in pratica dai valori del consumismo. Un tema, questo, su cui si intreccia poi la vicenda del film, il delicato e a tratti doloroso incontro tra una figlia ed un padre molto diversi tra di loro, come lo sono tra di esse le due generazioni tedesche cui questi appartengono : da un lato quella nata all'indomani della seconda guerra mondiale, progressista ed aperta, e dall'altra quella di oggi, prevalentemente tesa al successo, spesso materialista e priva di solidi punti di riferimento . Come si vede, questioni complesse ed affascinanti. E con le quali, o meglio con l'assunto con cui Maren Ade le affronta, posso dire di sentirmi, così come credo molti spettatori, in sostanziale sintonia.
Peccato, anche qui come per " Moonlight ", che alle intenzioni non seguano i fatti. Intendo dire che al ( spesso lodevole, in alcune parti più discutibile ) sostrato ideologico del film non corrisponda una " rappresentazione " di quelle idee esteticamente valida. E mi spiego. Non basta, in effetti, mostrarci personaggi che vorrebbero essere esemplificazioni del marciume del neocapitalismo senza frontiere ma che risultano, per lo più, artisticamente privi di consistenza, raffazzonati, neanche tanto antipatici da stimolare la nostra condanna morale. Che dire della lunga, insistita, a tratti grottesca, descrizione della " vita mondana " di Bucarest, che appunto a tratti suscita il riso ma non aggiunge nulla di " significante " alla psicologia della giovane protagonista ? Il film, troppo lungo ( due ore e quaranta, e con orgoglio la regista afferma di aver girato materiale per cento ore di proiezione ! ) si perde in questo modo in una infinità di " bozzetti " ( il boss tedesco arrivato in Romania per supervisionare il lavoro della consulente, l'amante romeno di quest'ultima, la segretaria timida e belloccia ) poco riusciti, quando non, a tratti, francamente imbarazzanti. Per non parlare , appunto, dello "humour" pesantemente teutonico di alcune situazioni ( chi vorrà vedere il film mi saprà dire... ) che , francamente, introduce quasi una nota di sguaiata goliardia in un film che vorrebbe avere tutt'altra dimensione. Resta il personaggio del padre- che, nelle intenzioni della regista, vorrebbe probabilmente essere quello positivo - un eterno burlone ( in realtà triste e depresso ) che cerca di ridare alla figlia il " senso della vita ". Ma anche quest' ultimo non mi è sembrato creazione artistica di sufficiente coerenza. Si esce dalla proiezione di " Toni Erdmann " sconcertati per i grossi scompensi di sceneggiatura, davvero troppo autoindulgente nella sua errata convinzione che basti dire che vi è del marcio in Danimarca, senza necessità di provarlo in modo esteticamente convincente, per portare a casa un successo qual si voglia. E si esce anche irritati nel vedere un buon tema, sicuramente degno di un migliore trattamento, ridotto in definitiva a mero aneddoto nazional-familiare. Quasi alla fine del film , il supposto Toni Erdmann si traveste da gorilla e sembra stupisca tutti con la sua apparizione, nell'appartamento di Ines prima e nel centro di Bucarest poi. Chiaramente, si tratta dell'esternazione del desiderio del personaggio maschile di tornare allo stato di natura, alla genuinità dei rapporti , ricalcando, fin nel travestimento da scimmione, certi momenti di " Morgan, matto da legare ", un bel film inglese di Karel Reisz ( 1966 ). Non so se Maren Ade lo conosca ed abbia preso da lì la sua idea. Ebbene, tanto forte appariva quell'immagine in "Morgan" - un film genuinamente sovversivo per l'epoca - quanto debole e poco suggestiva si rivela questa, così che più che un autentica provocazione essa finisce, in " Toni Erdmann", con l'apparire solo una ennesima " trouvaille ". Peccato davvero.
Prendiamo " Moonlight", il film che, alla cerimonia degli Oscar e nel modo rocambolesco che sappiamo, è stato proclamato proprio sette giorni or sono il miglior film del 2016. La vicenda, articolata in tre parti, corrispondenti ciascuna ad una età e ad un momento particolarmente significativo vissuto dal protagonista, ci conduce nella Miami di questi ultimi anni. Non quella delle spiagge di lusso , dei grandi alberghi e del " beautiful people ". Piuttosto quella meno conosciuta ma terribilmente vera delle periferie tormentate dalla povertà, l'emarginazione razziale, la violenza e la droga. In questo panorama così poco accattivante siamo chiamati a seguire l'evoluzione, l'apprendistato individuale e sociale di Chiron, un ragazzino nero orfano di padre, rimasto con una madre dispotica e cocainomane, gentile e taciturno, oggetto di scherno e di continue vessazioni in un mondo "macho " e che vede con crescente sospetto la sua " diversità ". Cresciuto avendo a modello un " dealer " cubano, duro di modi ma di ottima disposizione d'animo che lo prende a ben volere ma che presto uscirà di scena, Chiron fattosi adulto cercherà dapprima di mimetizzarsi nell' ambiente circostante, diventando a sua volta uno spacciatore di successo, tutto muscoli e sguardo feroce. Ma alla fine capirà che non vi è via d'uscita da un mondo siffatto - dal nostro mondo- se non attraverso la pietà verso sé stessi e gli altri, la condivisione dei sentimenti, l'amore, la serena accettazione di ciò che autenticamente siamo e delle ragioni profonde che ne sono alla base.
Difficile non aderire all'assunto del film e non condividere il percorso iniziatico di Chiron bambino, adolescente e giovane adulto tra le difficoltà della vita. Tema e ambientazione non sono nuovissimi , almeno da Dickens in poi, ma si fanno seguire sempre con interesse ; specie quando siano esposti con chiarezza e vigore sufficienti. Il nostro sostegno, diremmo quasi il nostro " tifo "per i giovani protagonisti di storie del genere, come per questo di " Moonlight ", è dato generalmente per scontato e ci si attende solo di vedere attraverso quali passaggi la storia evolva verso una tranquillizzante palingenesi.
Ma, se queste erano le aspettative, o almeno gli auspici, del regista-sceneggiatore, l'afroamericano non ancora quarantenne Barry Jenkins al suo secondo lungometraggio, debbo dire che ad una istintiva simpatia dello spettatore per il suo personaggio principale non fa seguito poi alcuna effettiva immedesimazione nelle " ragioni " del medesimo, che rimangono troppo generiche , troppo irrisolte per catturare la nostra emozione estetica. Se la prima delle tre parti del film ( Chiron bambino ed il suo sodalizio con lo spacciatore Juan ) è anche la migliore per una certa freschezza di toni- non supportati peraltro a dovere dalle esitazioni e dalle ingenuità di una regia abbastanza accademica - la seconda ( Chiron adolescente e la presa di coscienza della sua omosessualità ) segue sentieri già battuti mille volte incespicando continuamente nella prevedibilità e scarsa significanza di molte scene. La terza, infine ( Chiron divenuto a sua volta un piccolo " boss " che ritorna a Miami per rivedere il primo ed unico amore della sua vita ) è francamente deludente e noiosa. Peccato davvero che una storia potenzialmente interessante sia stata trattata con tanta povertà di ispirazione e di mezzi espressivi ( faccio appena salvi il personaggio di Juan, interpretato con intelligenza da Mahatma Alì, che ha avuto l' Oscar per il miglior attore non protagonista, e il musetto simpatico del bambino che interpreta Chiron , sempre nel primo episodio ). Troppo lungo, il film sente maledettamente la sua derivazione teatrale. A far bene, il regista avrebbe dovuto avere il coraggio di condensare la vicenda, renderla più serrata, eliminando l'eccessivo sentimentalismo che è fatalmente in agguato in storie del genere. Ne avrebbero certamente guadagnato e la descrizione ambientale, troppo molle ed edulcorata, e lo spessore, insufficiente, del personaggio principale. Siamo intellettualmente dalla parte di Chiron, in definitiva , ma non trepidiamo per lui, non vi è vera emozione nei suoi confronti . E questo, francamente, un po' ci dispiace.
Stessa storia - facile adesione intellettuale ma scarsa " presa " emozionale - per il secondo dei film di questa settimana. Quel " Toni Erdmann " ( da noi, curiosamente, " Vi presento ecc. " ) che la giovane ma già sperimentata regista germanica Marion Ade ha concepito e diretto lavorandoci, pare, per ben tre anni o anche qualcosa di più. E che, presentato la scorsa primavera a Cannes, vi ha riscosso i favori della più gran parte della critica internazionale . Scambiato, almeno a tratti, dal pubblico per un film umoristico - a giudicare almeno dalle frequenti risatine che si udivano nella sala dell' " Eliseo " di Milano dove l'ho visto in questi giorni - è in verità un 'opera piuttosto amara, una severa radiografia della nostra epoca. O almeno della crescente infelicità che i troppi beni materiali di cui disponiamo, o se volete la continua ricerca dell'appagamento dei sensi e la brama di potere che ad essi si accompagna, hanno ormai contribuito a diffondere. Ricerca e brama che - ecco la cornice ambientale del film - il dilagare delle multinazionali in Europa, le loro pratiche ed i comportamenti interpersonali che ad esse ineriscono esaltano vieppiù. Sicchè, come dice nel film Wilfried, alias Toni Erdmann, "abbiamo finito col ridurre la nostra vita ad un elenco di cose da fare, dimenticandoci dell'attimo, cioè della vita stessa ". Ines, sua figlia ( una sensibile e brava Sandra Huller ) lavora a Bucarest come consulente, al servizio appunto di una multinazionale incaricata di ristrutturare società ed impianti industriali non più in linea con le " performance " che ci si attende da essi. Compito, questo, svolto con spietata fermezza e un bel disprezzo per le implicazioni umane sottostanti , in un ambiente ( i paesi dell' Est ex comunista ) frastornato dall' improvviso benessere e vampirizzato in pratica dai valori del consumismo. Un tema, questo, su cui si intreccia poi la vicenda del film, il delicato e a tratti doloroso incontro tra una figlia ed un padre molto diversi tra di loro, come lo sono tra di esse le due generazioni tedesche cui questi appartengono : da un lato quella nata all'indomani della seconda guerra mondiale, progressista ed aperta, e dall'altra quella di oggi, prevalentemente tesa al successo, spesso materialista e priva di solidi punti di riferimento . Come si vede, questioni complesse ed affascinanti. E con le quali, o meglio con l'assunto con cui Maren Ade le affronta, posso dire di sentirmi, così come credo molti spettatori, in sostanziale sintonia.
Peccato, anche qui come per " Moonlight ", che alle intenzioni non seguano i fatti. Intendo dire che al ( spesso lodevole, in alcune parti più discutibile ) sostrato ideologico del film non corrisponda una " rappresentazione " di quelle idee esteticamente valida. E mi spiego. Non basta, in effetti, mostrarci personaggi che vorrebbero essere esemplificazioni del marciume del neocapitalismo senza frontiere ma che risultano, per lo più, artisticamente privi di consistenza, raffazzonati, neanche tanto antipatici da stimolare la nostra condanna morale. Che dire della lunga, insistita, a tratti grottesca, descrizione della " vita mondana " di Bucarest, che appunto a tratti suscita il riso ma non aggiunge nulla di " significante " alla psicologia della giovane protagonista ? Il film, troppo lungo ( due ore e quaranta, e con orgoglio la regista afferma di aver girato materiale per cento ore di proiezione ! ) si perde in questo modo in una infinità di " bozzetti " ( il boss tedesco arrivato in Romania per supervisionare il lavoro della consulente, l'amante romeno di quest'ultima, la segretaria timida e belloccia ) poco riusciti, quando non, a tratti, francamente imbarazzanti. Per non parlare , appunto, dello "humour" pesantemente teutonico di alcune situazioni ( chi vorrà vedere il film mi saprà dire... ) che , francamente, introduce quasi una nota di sguaiata goliardia in un film che vorrebbe avere tutt'altra dimensione. Resta il personaggio del padre- che, nelle intenzioni della regista, vorrebbe probabilmente essere quello positivo - un eterno burlone ( in realtà triste e depresso ) che cerca di ridare alla figlia il " senso della vita ". Ma anche quest' ultimo non mi è sembrato creazione artistica di sufficiente coerenza. Si esce dalla proiezione di " Toni Erdmann " sconcertati per i grossi scompensi di sceneggiatura, davvero troppo autoindulgente nella sua errata convinzione che basti dire che vi è del marcio in Danimarca, senza necessità di provarlo in modo esteticamente convincente, per portare a casa un successo qual si voglia. E si esce anche irritati nel vedere un buon tema, sicuramente degno di un migliore trattamento, ridotto in definitiva a mero aneddoto nazional-familiare. Quasi alla fine del film , il supposto Toni Erdmann si traveste da gorilla e sembra stupisca tutti con la sua apparizione, nell'appartamento di Ines prima e nel centro di Bucarest poi. Chiaramente, si tratta dell'esternazione del desiderio del personaggio maschile di tornare allo stato di natura, alla genuinità dei rapporti , ricalcando, fin nel travestimento da scimmione, certi momenti di " Morgan, matto da legare ", un bel film inglese di Karel Reisz ( 1966 ). Non so se Maren Ade lo conosca ed abbia preso da lì la sua idea. Ebbene, tanto forte appariva quell'immagine in "Morgan" - un film genuinamente sovversivo per l'epoca - quanto debole e poco suggestiva si rivela questa, così che più che un autentica provocazione essa finisce, in " Toni Erdmann", con l'apparire solo una ennesima " trouvaille ". Peccato davvero.
Che fatica, gentilissimo Paolo, farti da contro-altare critico (mi sembra sempre più chiaro che noialtri non si ami il medesimo cinema... ma questo, al limite, mi sembra un pregio in sé).
RispondiEliminaSu "Moonlight" non potrei essere più d'accordo, ma su "Vi presento Toni Erdman" proprio no. Sarà che io l'ho visto nelle migliori condizioni - all'Anteo, dopo una cena all'Incoronata (apprendo solo oggi: una tradizione meneghina, che curioso, a Napoli si va sempre a cena dopo) – ma a me è piaciuto molto e mi è sembrato opportunamente sovversivo: "hanno fatto del palazzo di Ceaușescu il più grande grande magazzino d'Europa... peccato che sia vuoto, perché nessuno ha i soldi per fare acquisti".
Tornerò con il pensiero sulla tua interpretazione del padre – ho paura, letteralmente timore – che tu abbia ragione: il padre è il solo personaggio positivo e... in realtà è un depresso. Ma non sono d'accordo sul valore che attribuisci all'ironia. Io ho riso molto in quel film, e di riso buono, autentico, liberatorio. Perché ridurne il valore a situazioni da macchietta? Il riso, in sé, è sempre un valore. Chi è che diceva (non lo ricordo, per davvero) "il riso è un colpo sul confine?"
Cordialità, molte,
gabriele.
Caro Gabriele ( grazie per il " tu " che accolgo con piacere ) il discorso si farebbe troppo lungo ( quello su " Toni Erdmann " e il nostro permanente ( ? ) dissenso sul cinema per affrontarlo qui. In fondo mi considero più un - discreto - dissertatore orale che un - appena passabile, forse - polemista della tastiera quale credo di essere. Urge che ci vediamo- magari anche con la intelligente e graziosa Francesca- per un incontro conviviale nel quale incrociare i nostri ferri e le nostre... forchette " à propos " di tutte queste cose. A te la scelta del campo, quando credi, la prossima settimana o , meglio ancora , tra il 20 ed il 30 di marzo ( poi ad aprile mi allontano per 10-15 giorni ).Cordialissimi saluti cinefili ( mi appresto a parlare di un altro film , lunedì o martedi' prossimo- " La luce sugli oceani "- che ho molto amato e che , temo, potrebbe inasprire il nostro simpaticissimo scambio dialettico ... )
EliminaHo visto il film. Argomento difficile e complicato, una storia triste e crudele, un quadro della nostra società che si può solo guardare, rimanere stupefatti e comprendere. Gli attori mi sono sembrati molto bravi, la sceneggiatura teatrale, quel soffermarsi della videocamera sui volti, sulle spalle dei ragazzi, la profondità di campo strettissima che spesso si soffermava in vera e propria sfocatura, il filtro che spesso copriva le scene dapprima mi disturbava, ma alla fine ho apprezzato e compreso. La sfocatura mi ha aiutato ad isolare la storia, a leggerla nel suo spazio cercando di giustificare la cruda realtà in cui si trova questo giovane ragazzo e le sue scelte di vita. Anche in questo film il silenzio gioca un ruolo fondamentale per far comprendere le angoscia, le ansie, i dolori di una famiglia che non esiste e che distrugge ancora prima di crescere. Poetica è la fine del film, crudele e dolorosa la vita ma è sempre l'amore che dona luce e serenità ed un senso al nostro vivere. Stupendo il fotogramma della macchina sull'autostrada alla quale si sovrappone quella dei bambini che giocano con le onde del mare, bellissimo! Il protagonista corre a ritrovare l'amico con lo stesso animo con cui da bambino giocava in riva al mare! Bellissima!
RispondiEliminaGrazie per la recensione sempre interessante. Salatissimi. Francesca
Cara Francesca, le Sue note sono sempre molto interessanti e profonde. Anche quando non sono con esse completamente d'accordo. Ma noi sappiamo- Lei ed io - che il cinema, più di ogni altra forma d'arte,è estremamente soggettivo. Il film non è mai finito nel momento in cui è pronto per essere mostrato in pubblico; continua a " vivere " ( a modificarsi nella percezione che se ne ha )attraverso lo sguardo e le emozioni dello spettatore, " quel " singolo spettatore. Confesso , per " Moonlight " di essere stato leggermente infastidito dall'accoglienza - secondo me eccessiva- della critica americana ( L' Oscar per il miglior film letteralmente " scippato " a " Manchester by the sea " ! ). Le Sue osservazioni, le Sue sensazioni sono probabilmente giuste, in fondo, e bilanciano la mia eccessiva " fiscalità " nel giudicarlo.
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