Quanto può essere determinante una cattiva , o tiepida, accoglienza critica di un film per il suo futuro commerciale ( a livello di distribuzione, programmazione nelle sale , incassi )? Molto, moltissimo, temo. Parlo, naturalmente , della vera e propria critica professionistica. Cioè quella dei quotidiani nazionali, dei settimanali , riviste specializzate, radio, televisione. Non il vostro umile ed affezionato rubricante che, al massimo, può dare qualche personalissimo consiglio ai 100-150 lettori che lo seguono e che non può incidere certo sulle fortune di questa o quell'opera...
Specie i film che vengono presentati nei festival ( Cannes , Venezia, Berlino, Locarno, Roma, New York, Toronto, Montreal e via enumerando ) corrono un bel rischio. Se la critica non li sostiene - segnalando i loro punti di forza quali regia, interpretazione, soggetto, sceneggiatura - ovvero li trascura quando addirittura non li condanna in malo modo per partito preso ( succede, succede anche in tempi, come questo, di diffuso "buonismo " o di lenocinio critico se preferite...) essi rischiano una brutta fine, indipendentemente dal valore intrinseco . Ecco il motivo per cui alcuni produttori e registi preferiscono ormai evitare l'insidiosa vetrina delle rassegne dianzi citate ed uscire "a sorpresa" durante la stagione, vergini di recensioni festivaliere. Un film che abbia avuto successo a Cannes o Venezia- ottenendo magari qualche premio- può godere di buone aspettative quando viene distribuito sugli schermi. Ma i film maltrattati in quelle stesse sedi ( e ci sarà sempre qualcuno, statene pur certi, che si farà premura di rammentarlo alla vigilia della loro uscita pubblica ) partono con un pesante handicap. Vengono negletti dalla grande distribuzione, gli esercenti si mostrano restii a noleggiarli, sono programmati in poche sale e destinati a lasciare presto il posto ad altre opere giudicate più allettanti. E il pubblico, già non incoraggiato dalle recensioni malevole, non è certo posto nelle condizioni migliori per andarli a vedere. E se, infine, a vederli ci va, la "negatività" sviluppatasi intorno ad essi finisce col condizionarne sfavorevolmente il giudizio. Al di là, voglio dire, del loro effettivo significato artistico. Potrei fare diversi esempi, nel passato, di buoni film sfavoriti dalla " professione " ( critici, distributori, esercenti ) che sono stati, di conseguenza, ingiustamente, trascurati dal pubblico. Se poi ci rapportiamo alla poco allegra situazione, oggi, del cinema in Italia - pubblico in calo, diffusa diffidenza verso i film che non esercitino un forte richiamo commerciale - facciamo presto a capire come sia difficile per un 'opera frettolosamente giudicata dai media riscuotere l'interesse che meriterebbe.
Mi scuso di questa lunga premessa ma sono davvero dispiaciuto- anzi, irritato - per la poco calorosa accoglienza che, a gran torto, " La luce sugli oceani ", il film di cui vorrei parlarvi, ha avuto da parte della critica italiana. Il sito specializzato " My movies " gli ha affibbiato addirittura la stessa etichetta " assolutamente no " che impiega per le sciocchezzuole nostrane o americane di bassissimo conio. I critici, italiani e stranieri, presenti a Venezia dove il film è stato presentato , lo hanno trattato con condiscendenza ( strappalacrime, melodrammatico, irrealistico, e via cantando ). Né migliore è stata l'accoglienza negli " States ", da cui pur proviene. Unica , notevole eccezione, la rivista francese " Positif " che gli ha dedicato un articolo elogiativo quando è uscito a Parigi nel mese di Ottobre. Da noi ha faticato a trovare un distributore ( a causa , per l'appunto, dell'insuccesso di Venezia ) ed è uscito solo alcuni giorni fa, dopo molti rinvii e a distanza di quasi sei mesi dalla sua disponibilità, probabilmente anche qui per far dimenticare le stroncature del Festival. Gli esercenti, almeno a Milano dove l'ho visto, lo hanno noleggiato solo per poche sale, tre in periferia ed una sola - piccola e con uno schermo inadeguato- in centro. In queste tristi condizioni è chiaro che la " carriera " commerciale del film, iniziata in salita, rischia di concludersi anche peggio. Il pubblico, che non può non essere influenzato dallo scarso rilievo che è stato riservato ad un'opera che avrebbe meritato ben maggiore attenzione, sta rispondendo male ( anche se , nelle ultimissime ore, il film si va un po' riprendendo al box office rimanendo peraltro sempre ai livelli di filmetti molto meno ambiziosi ) . Così va il mondo, potreste farmi notare . D'accordo, non è la prima ingiustizia che colpisce il cinema di valore ( penso all'incomprensione iniziale, di pubblico e perfino di una certa critica, nei confronti di Bergman o di Antonioni ). Ma qui è quasi da sospettare che vi sia stato anche un sottile , automatico rifiuto "ideologico " nei confronti di un film che ha come " focus " l'amore di coppia , la famiglia, il desiderio di procreare, la responsabilità ed i doveri dell'individuo. Tutti temi che non sono certo nel "mainstream" odierno, scomodi, spiazzanti. Da esorcizzare, forse.
Tom, il protagonista ( Michael Fassbender ) è un reduce della prima guerra mondiale. Australiano, ha combattuto in Europa. Smobilitato e tornato in patria , accetta un impiego temporaneo come guardiano di un faro in una isoletta sperduta e disabitata , alla confluenza tra l' Oceano Indiano e il Pacifico. Sulla via della propria destinazione, prima di imbarcarsi, conosce una ragazza, Isabella (Alicia Wickander) . Se ne innamora e , tornato dopo qualche mese nella località dove questa risiede, la chiede in matrimonio e la conduce con sé sull'isola ( nel frattempo il suo incarico si è trasformato in duraturo ). Lui e la sposa non sembrano avere timore di quella esistenza solitaria, quasi da naufraghi. In realtà ci rendiamo conto che entrambi hanno desiderato di isolarsi, scossi dalle tragiche vicende belliche . Tom ha visto morire molti dei suoi commilitoni in combattimento, Isabella ha perso tutti e due i suoi fratelli, anch'essi al fronte. Il loro desiderio è ora quello di abitare in un luogo incontaminato, quasi una sorta di neo-paradiso terrestre dove condurre una vita semplice, amarsi , fondare una famiglia. Ben presto però il destino si accanisce contro la giovane coppia. Isabella non riesce ad avere un figlio e abortisce due volte ( l'ultima in circostanze drammatiche, durante una terribile tempesta ). Proprio il giorno seguente, calmatasi la furia degli elementi, la risacca conduce a riva una barca... Non dirò di più perché il film va visto - almeno la prima volta - nell' inconsapevole succedersi dei suoi snodi narrativi, nelle sorprese che ci riserva quasi fosse una favola o meglio un apologo sul desiderio insopprimibile e umanissimo di realizzare le proprie aspirazioni, anche contro i diritti o gli interessi degli altri. Ma anche sul senso del dovere che avvertiamo dentro di noi, sulla responsabilità che abbiamo verso il nostro prossimo e che non possiamo disattendere. Posto di fronte alle traversie della vita, colpito a volte duramente dalla sorte avversa, l'individuo continua ad inseguire il proprio sogno di felicità. Ma tutto si complica ( anche se ci si rifugia in un isola deserta ) quando il destino che è venuto a cercarci ci pone di fronte ad interrogativi morali ai quali dobbiamo dare risposta. E non è sempre , purtroppo, una partita da cui tutti escono vincitori. Anche se, nell'ultima bellissima sequenza con cui si chiude il film, " vent'anni dopo " come ci informa una didascalia, ci rendiamo conto che i sentimenti, alla lunga, finiscono col premiare i nostri comportamenti responsabili. Cuore e ragione non sono più in insanabile conflitto.
Grande narratore, Derek Cianfrance non ha paura di raccontarci una " storia ", come purtroppo oggi sembrano averla tanti sceneggiatori di film che girano in tondo o , se preferite, menano il can per l'aia alla ricerca dei propri personaggi e non riescono a calarli in una vicenda che abbia un significato compiuto, che sia davvero " esemplare ". Nel senso, cioè, che esemplifichi aspetti oggettivi della condizione umana , non mere elucubrazioni della mente dell'autore o cascami psico-sociologici senza un vero puntello nella realtà che ci circonda. Cinema, voglio dire, che abbia il sapore del pane che ci nutre, il soffio dell'aria che respiriamo. E Cianfrance ha dimostrato di essere in grado di offrirci l'uno e l'altro nei suoi film precedenti. Nel sorprendente " Blue Valentine "( 2010) e, soprattutto, in "Come un tuono" (2013, una volta tanto un titolo italiano bene azzeccato, perfino più dell'originale " The place beyond the pines "...). Con quest'ultimo, il regista ci diede una vera e propria saga articolata su due generazioni, senza timore di apparire desueto od eccessivo. Il cinema, arte visiva per eccellenza, necessita però di una ossatura solida ( il racconto ) su cui innervare le immagini che fanno la nostra felicità di spettatori. Qui, al pari di " Come un tuono ", " La luce sugli oceani " possiede inquadrature che sono una festa continua per gli occhi ( gli spettacolari paesaggi oceanici in cui è stato girato, la maestosa bellezza di una scogliera o di un mare in tempesta contrapposti alla delicatezza intimistica di interni di abitazione semplici e spogli nei quali entra , attenuata, la luce abbagliante del giorno, illuminati di sera dal fuoco scoppiettante di un invitante caminetto ). Ma quegli elementi " esteriori " non sono puramente decorativi. Sono essi stessi parte integrante della narrazione, sottolineano intelligentemente gli stati d'animo dei protagonisti, accompagnano la nostra progressiva acclimatazione con la vicenda, si fondono mirabilmente con gli sviluppi narrativi. La " storia ", è , quanto ad essa, bella e profonda e soprattutto raccontata benissimo. Si pensi al modo, diretto ed essenziale, con cui facciamo conoscenza con Tom nella prima scena del film. La macchina da presa lo inquadra in campo medio mentre è a colloquio con il "reclutatore " per il faro che andrà a gestire , che non vediamo che per un breve attimo. Siamo concentrati invece sul volto del protagonista che seguiremo per tutta la vicenda, severo, stanco eppure solido e buono come intuiamo anche dalle poche parole che pronuncia. E poi, subito, il viaggio, il breve contatto con la famiglia di Isabella, il nascente sentimento tra lui e la ragazza, l'arrivo nell'isola maestosa e solitaria. La capacità narrativa di Cianfrance, tutta per scorci, brevi inquadrature dal taglio preciso, senza fronzoli, è degna di un Melville, di un Hawtorne, di quei grandi scrittori del " Nuovo mondo " nel secolo scorso in cui il meraviglioso si sposa perfettamente al semplice ed all'essenziale. Sequenze parimenti esemplari: l'arrivo di Isabella nell'isola, il suo giovanile stupore nell'entrare nella modesta ma ordinata dimora, l'idillio con Tom, la loro prima conoscenza carnale, la terribile tempesta in cui la donna perde il nascituro, la sua corsa folle la mattina dopo verso la misteriosa barca che Tom sta portando a riva quasi nella speranza che contenga qualcosa , qualcuno, che possa attenuare il suo dolore.
Grande narratore, Cianfrance non ha paura dei sentimenti, di mostrarci in modo semplice e diretto la ingenua gioia di Isabella nel correre sull'isola e giocare con gli animali che alleva vicino alla casa, il doloroso conflitto che è in Tom tra l'amore per la moglie ed il suo senso del dovere, l'angoscia di una madre ( Rachel Weisz ) che ha perso la propria neonata, la serena solitudine di Tom, fattosi vecchio, alla fine del film. Tra i registi quarantenni o non ancora del nuovo cinema americano, Paul Thomas Anderson ( " Magnolia " ) James Gray ( " Two lovers " ) Jeff Nichols ( " Take shelter" ) Cianfrance è forse quello che maggiormente intende, rivisitandola, ricollegarsi alla produzione hollywoodiana dell'epoca " classica " del dopoguerra ( gli anni '50-'60 ). Gli anni, per intenderci, dei grandi melodrammi di Aldrich, Ray, Minnelli, Sirk. Un " genere " che allora piacque soprattutto al pubblico ma che poi la critica più recente ha puntualmente rivalutato. Alla luce di questo doveroso accostamento ( pensiamo ad un film " eccessivo " come " Johnny Guitar " di Nicholas Ray o al denso " Lo specchio della vita " di Douglas Sirk ) sfido ora chiunque a trovare che il film di Cianfrance è "zuccheroso " o " smodato " come incautamente è stato definito. Meravigliosamente servito dai suoi tre interpreti ( Fassbender su tutti, ma la Wickander è destinata ad una grande carriera di interprete drammatica ) " La luce sugli oceani " si giova di due altre caratteristiche fondamentali per un cinema che voglia suggestionare il pubblico, colpirlo quasi a livello emotivo. Da un lato la fotografia, abilissima , di grande efficacia plastica, perfettamente in linea con le intenzioni del regista. Dall'altra la musica ( di Alexandre Desplat ) solenne ed onnipresente come si addice ad un film di questa intensità e vigore narrativo ( che melodramma sarebbe senza una adeguata partitura ? ). Della regia credo di aver detto. In due ore e tredici minuti di proiezione non ho praticamente assistito ad un momento di " stanca " , come si dice , di distrazione insomma da parte di Cianfrance. Anche qui il materiale girato ( in un " tournage " protrattosi per mesi e mesi, dando il tempo a Fassbender e Wickander di conoscersi bene e di decidere di vivere assieme... ) sfiorava - come in " Tony Erdmann " - le duecento ore di proiezione. Ma, mentre in quest'ultimo non è stato capace di organizzarsi in maniera equilibrata e coerente, in " La luce sugli oceani " non vi è una sequenza o una inquadratura che non abbia la sua coerenza ed il suo significato, senza sbavature od eccessive compiacenze. "Chapeau", come si dice.
Specie i film che vengono presentati nei festival ( Cannes , Venezia, Berlino, Locarno, Roma, New York, Toronto, Montreal e via enumerando ) corrono un bel rischio. Se la critica non li sostiene - segnalando i loro punti di forza quali regia, interpretazione, soggetto, sceneggiatura - ovvero li trascura quando addirittura non li condanna in malo modo per partito preso ( succede, succede anche in tempi, come questo, di diffuso "buonismo " o di lenocinio critico se preferite...) essi rischiano una brutta fine, indipendentemente dal valore intrinseco . Ecco il motivo per cui alcuni produttori e registi preferiscono ormai evitare l'insidiosa vetrina delle rassegne dianzi citate ed uscire "a sorpresa" durante la stagione, vergini di recensioni festivaliere. Un film che abbia avuto successo a Cannes o Venezia- ottenendo magari qualche premio- può godere di buone aspettative quando viene distribuito sugli schermi. Ma i film maltrattati in quelle stesse sedi ( e ci sarà sempre qualcuno, statene pur certi, che si farà premura di rammentarlo alla vigilia della loro uscita pubblica ) partono con un pesante handicap. Vengono negletti dalla grande distribuzione, gli esercenti si mostrano restii a noleggiarli, sono programmati in poche sale e destinati a lasciare presto il posto ad altre opere giudicate più allettanti. E il pubblico, già non incoraggiato dalle recensioni malevole, non è certo posto nelle condizioni migliori per andarli a vedere. E se, infine, a vederli ci va, la "negatività" sviluppatasi intorno ad essi finisce col condizionarne sfavorevolmente il giudizio. Al di là, voglio dire, del loro effettivo significato artistico. Potrei fare diversi esempi, nel passato, di buoni film sfavoriti dalla " professione " ( critici, distributori, esercenti ) che sono stati, di conseguenza, ingiustamente, trascurati dal pubblico. Se poi ci rapportiamo alla poco allegra situazione, oggi, del cinema in Italia - pubblico in calo, diffusa diffidenza verso i film che non esercitino un forte richiamo commerciale - facciamo presto a capire come sia difficile per un 'opera frettolosamente giudicata dai media riscuotere l'interesse che meriterebbe.
Mi scuso di questa lunga premessa ma sono davvero dispiaciuto- anzi, irritato - per la poco calorosa accoglienza che, a gran torto, " La luce sugli oceani ", il film di cui vorrei parlarvi, ha avuto da parte della critica italiana. Il sito specializzato " My movies " gli ha affibbiato addirittura la stessa etichetta " assolutamente no " che impiega per le sciocchezzuole nostrane o americane di bassissimo conio. I critici, italiani e stranieri, presenti a Venezia dove il film è stato presentato , lo hanno trattato con condiscendenza ( strappalacrime, melodrammatico, irrealistico, e via cantando ). Né migliore è stata l'accoglienza negli " States ", da cui pur proviene. Unica , notevole eccezione, la rivista francese " Positif " che gli ha dedicato un articolo elogiativo quando è uscito a Parigi nel mese di Ottobre. Da noi ha faticato a trovare un distributore ( a causa , per l'appunto, dell'insuccesso di Venezia ) ed è uscito solo alcuni giorni fa, dopo molti rinvii e a distanza di quasi sei mesi dalla sua disponibilità, probabilmente anche qui per far dimenticare le stroncature del Festival. Gli esercenti, almeno a Milano dove l'ho visto, lo hanno noleggiato solo per poche sale, tre in periferia ed una sola - piccola e con uno schermo inadeguato- in centro. In queste tristi condizioni è chiaro che la " carriera " commerciale del film, iniziata in salita, rischia di concludersi anche peggio. Il pubblico, che non può non essere influenzato dallo scarso rilievo che è stato riservato ad un'opera che avrebbe meritato ben maggiore attenzione, sta rispondendo male ( anche se , nelle ultimissime ore, il film si va un po' riprendendo al box office rimanendo peraltro sempre ai livelli di filmetti molto meno ambiziosi ) . Così va il mondo, potreste farmi notare . D'accordo, non è la prima ingiustizia che colpisce il cinema di valore ( penso all'incomprensione iniziale, di pubblico e perfino di una certa critica, nei confronti di Bergman o di Antonioni ). Ma qui è quasi da sospettare che vi sia stato anche un sottile , automatico rifiuto "ideologico " nei confronti di un film che ha come " focus " l'amore di coppia , la famiglia, il desiderio di procreare, la responsabilità ed i doveri dell'individuo. Tutti temi che non sono certo nel "mainstream" odierno, scomodi, spiazzanti. Da esorcizzare, forse.
Tom, il protagonista ( Michael Fassbender ) è un reduce della prima guerra mondiale. Australiano, ha combattuto in Europa. Smobilitato e tornato in patria , accetta un impiego temporaneo come guardiano di un faro in una isoletta sperduta e disabitata , alla confluenza tra l' Oceano Indiano e il Pacifico. Sulla via della propria destinazione, prima di imbarcarsi, conosce una ragazza, Isabella (Alicia Wickander) . Se ne innamora e , tornato dopo qualche mese nella località dove questa risiede, la chiede in matrimonio e la conduce con sé sull'isola ( nel frattempo il suo incarico si è trasformato in duraturo ). Lui e la sposa non sembrano avere timore di quella esistenza solitaria, quasi da naufraghi. In realtà ci rendiamo conto che entrambi hanno desiderato di isolarsi, scossi dalle tragiche vicende belliche . Tom ha visto morire molti dei suoi commilitoni in combattimento, Isabella ha perso tutti e due i suoi fratelli, anch'essi al fronte. Il loro desiderio è ora quello di abitare in un luogo incontaminato, quasi una sorta di neo-paradiso terrestre dove condurre una vita semplice, amarsi , fondare una famiglia. Ben presto però il destino si accanisce contro la giovane coppia. Isabella non riesce ad avere un figlio e abortisce due volte ( l'ultima in circostanze drammatiche, durante una terribile tempesta ). Proprio il giorno seguente, calmatasi la furia degli elementi, la risacca conduce a riva una barca... Non dirò di più perché il film va visto - almeno la prima volta - nell' inconsapevole succedersi dei suoi snodi narrativi, nelle sorprese che ci riserva quasi fosse una favola o meglio un apologo sul desiderio insopprimibile e umanissimo di realizzare le proprie aspirazioni, anche contro i diritti o gli interessi degli altri. Ma anche sul senso del dovere che avvertiamo dentro di noi, sulla responsabilità che abbiamo verso il nostro prossimo e che non possiamo disattendere. Posto di fronte alle traversie della vita, colpito a volte duramente dalla sorte avversa, l'individuo continua ad inseguire il proprio sogno di felicità. Ma tutto si complica ( anche se ci si rifugia in un isola deserta ) quando il destino che è venuto a cercarci ci pone di fronte ad interrogativi morali ai quali dobbiamo dare risposta. E non è sempre , purtroppo, una partita da cui tutti escono vincitori. Anche se, nell'ultima bellissima sequenza con cui si chiude il film, " vent'anni dopo " come ci informa una didascalia, ci rendiamo conto che i sentimenti, alla lunga, finiscono col premiare i nostri comportamenti responsabili. Cuore e ragione non sono più in insanabile conflitto.
Grande narratore, Derek Cianfrance non ha paura di raccontarci una " storia ", come purtroppo oggi sembrano averla tanti sceneggiatori di film che girano in tondo o , se preferite, menano il can per l'aia alla ricerca dei propri personaggi e non riescono a calarli in una vicenda che abbia un significato compiuto, che sia davvero " esemplare ". Nel senso, cioè, che esemplifichi aspetti oggettivi della condizione umana , non mere elucubrazioni della mente dell'autore o cascami psico-sociologici senza un vero puntello nella realtà che ci circonda. Cinema, voglio dire, che abbia il sapore del pane che ci nutre, il soffio dell'aria che respiriamo. E Cianfrance ha dimostrato di essere in grado di offrirci l'uno e l'altro nei suoi film precedenti. Nel sorprendente " Blue Valentine "( 2010) e, soprattutto, in "Come un tuono" (2013, una volta tanto un titolo italiano bene azzeccato, perfino più dell'originale " The place beyond the pines "...). Con quest'ultimo, il regista ci diede una vera e propria saga articolata su due generazioni, senza timore di apparire desueto od eccessivo. Il cinema, arte visiva per eccellenza, necessita però di una ossatura solida ( il racconto ) su cui innervare le immagini che fanno la nostra felicità di spettatori. Qui, al pari di " Come un tuono ", " La luce sugli oceani " possiede inquadrature che sono una festa continua per gli occhi ( gli spettacolari paesaggi oceanici in cui è stato girato, la maestosa bellezza di una scogliera o di un mare in tempesta contrapposti alla delicatezza intimistica di interni di abitazione semplici e spogli nei quali entra , attenuata, la luce abbagliante del giorno, illuminati di sera dal fuoco scoppiettante di un invitante caminetto ). Ma quegli elementi " esteriori " non sono puramente decorativi. Sono essi stessi parte integrante della narrazione, sottolineano intelligentemente gli stati d'animo dei protagonisti, accompagnano la nostra progressiva acclimatazione con la vicenda, si fondono mirabilmente con gli sviluppi narrativi. La " storia ", è , quanto ad essa, bella e profonda e soprattutto raccontata benissimo. Si pensi al modo, diretto ed essenziale, con cui facciamo conoscenza con Tom nella prima scena del film. La macchina da presa lo inquadra in campo medio mentre è a colloquio con il "reclutatore " per il faro che andrà a gestire , che non vediamo che per un breve attimo. Siamo concentrati invece sul volto del protagonista che seguiremo per tutta la vicenda, severo, stanco eppure solido e buono come intuiamo anche dalle poche parole che pronuncia. E poi, subito, il viaggio, il breve contatto con la famiglia di Isabella, il nascente sentimento tra lui e la ragazza, l'arrivo nell'isola maestosa e solitaria. La capacità narrativa di Cianfrance, tutta per scorci, brevi inquadrature dal taglio preciso, senza fronzoli, è degna di un Melville, di un Hawtorne, di quei grandi scrittori del " Nuovo mondo " nel secolo scorso in cui il meraviglioso si sposa perfettamente al semplice ed all'essenziale. Sequenze parimenti esemplari: l'arrivo di Isabella nell'isola, il suo giovanile stupore nell'entrare nella modesta ma ordinata dimora, l'idillio con Tom, la loro prima conoscenza carnale, la terribile tempesta in cui la donna perde il nascituro, la sua corsa folle la mattina dopo verso la misteriosa barca che Tom sta portando a riva quasi nella speranza che contenga qualcosa , qualcuno, che possa attenuare il suo dolore.
Grande narratore, Cianfrance non ha paura dei sentimenti, di mostrarci in modo semplice e diretto la ingenua gioia di Isabella nel correre sull'isola e giocare con gli animali che alleva vicino alla casa, il doloroso conflitto che è in Tom tra l'amore per la moglie ed il suo senso del dovere, l'angoscia di una madre ( Rachel Weisz ) che ha perso la propria neonata, la serena solitudine di Tom, fattosi vecchio, alla fine del film. Tra i registi quarantenni o non ancora del nuovo cinema americano, Paul Thomas Anderson ( " Magnolia " ) James Gray ( " Two lovers " ) Jeff Nichols ( " Take shelter" ) Cianfrance è forse quello che maggiormente intende, rivisitandola, ricollegarsi alla produzione hollywoodiana dell'epoca " classica " del dopoguerra ( gli anni '50-'60 ). Gli anni, per intenderci, dei grandi melodrammi di Aldrich, Ray, Minnelli, Sirk. Un " genere " che allora piacque soprattutto al pubblico ma che poi la critica più recente ha puntualmente rivalutato. Alla luce di questo doveroso accostamento ( pensiamo ad un film " eccessivo " come " Johnny Guitar " di Nicholas Ray o al denso " Lo specchio della vita " di Douglas Sirk ) sfido ora chiunque a trovare che il film di Cianfrance è "zuccheroso " o " smodato " come incautamente è stato definito. Meravigliosamente servito dai suoi tre interpreti ( Fassbender su tutti, ma la Wickander è destinata ad una grande carriera di interprete drammatica ) " La luce sugli oceani " si giova di due altre caratteristiche fondamentali per un cinema che voglia suggestionare il pubblico, colpirlo quasi a livello emotivo. Da un lato la fotografia, abilissima , di grande efficacia plastica, perfettamente in linea con le intenzioni del regista. Dall'altra la musica ( di Alexandre Desplat ) solenne ed onnipresente come si addice ad un film di questa intensità e vigore narrativo ( che melodramma sarebbe senza una adeguata partitura ? ). Della regia credo di aver detto. In due ore e tredici minuti di proiezione non ho praticamente assistito ad un momento di " stanca " , come si dice , di distrazione insomma da parte di Cianfrance. Anche qui il materiale girato ( in un " tournage " protrattosi per mesi e mesi, dando il tempo a Fassbender e Wickander di conoscersi bene e di decidere di vivere assieme... ) sfiorava - come in " Tony Erdmann " - le duecento ore di proiezione. Ma, mentre in quest'ultimo non è stato capace di organizzarsi in maniera equilibrata e coerente, in " La luce sugli oceani " non vi è una sequenza o una inquadratura che non abbia la sua coerenza ed il suo significato, senza sbavature od eccessive compiacenze. "Chapeau", come si dice.
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