Cari amici, questa settimana - a gentile richiesta di chi, al cinema, vuole anche sorridere e divertirsi- mi dedicherò ad opere meno austere e che, almeno sulla carta, si propongono di farci addirittura ridere di noi stessi e del mondo che ci circonda ( o che ci circondava, visto che la prima è ambientata nel primo decennio del secolo scorso e la seconda in piena guerra fredda alla vigilia della costruzione del muro di Berlino ).
Far ridere al cinema- come a teatro o in letteratura- è un’arte difficilissima e che richiede cuore ed intelligenza. Cuore perchè anche nella satira più corrosiva occorre mantenere quella “ pietas “ e quella partecipazione emotiva nei confronti delle vittime delle nostre invenzioni comiche che ci impedisca di cadere nell’ invettiva e nella derisione . Intelligenza perchè i meccanismi che muovono al riso sono congegni delicati e che necessitano di idee ben precise ed autentica capacità di realizzazione. Per fermarci al cinema, i registi cosiddetti “brillanti” che possiedono questi due doni ( penso ad un Lubitsch o ad un René Clair ) non mi sembrano davvero, proprio per le difficoltà che hanno saputo superare , di minore importanza di quelli capaci di commuoverci e di emozionarci con storie più drammatiche od impegnative ( e che qualcuno sarebbe indotto a ritenere “superiori” solo perchè ci hanno dato opere “serie” ).
Bruno Dumont, l’autore della sceneggiatura e della regia di “Ma loute”, presentato questa primavera a Cannes ed ora in qualche sala italiana, credo che sogghignerebbe a sentirsi definire un cineasta “brillante” : ed infatti non lo è .Il suo cinema ( cinque o sei lungometraggi , diversi “corti”) è di dichiarata ispirazione filosofico-sociale , ambientato spesso in aree depresse del Nord della Francia, attento alla condizione degli “ultimi”, plumbeo e con poche concessioni allo spettacolo. Con il suo ultimo film in ordine di tempo egli ha voluto tornare nuovamente in quella zona che conosce meglio , tra Lilla e Calais, ambientando però la vicenda nella fase storica antecedente la prima guerra mondiale ed affiancando ai suoi tradizionali personaggi “brutti , sporchi e cattivi” alcuni esemplari tipici di quel ceto aristocratico-borghese pago di aver trovato nel nascente capitalismo industriale una nuova via per sfruttare le classi subalterne.Ma soprattutto, al dramma e alle tinte fosche che contraddistinguevano le sue opere precedenti, il regista ha voluto questa volta - sulla scorta di una fortunata serie televisiva da lui realizzata lo scorso anno- sostituire la satira ( feroce ) e l’ umorismo ( decisamente nero). Sulle bianche dune e nelle paludi della costa francese al confine con il Belgio, ad una tribù di pescatori quasi primordiali,enigmatici e sfuggenti, sospetti di omicidi a catena e perfino di antropofagia, si contrappone così un manipolo di ricchi villeggianti ottusi , tarati nel corpo e nello spirito , talmente presi dagli stupidi riti sociali e dalle meschine preoccupazioni della loro classe sociale da non accorgersi nemmeno di ciò che di inquietante va svolgendosi quasi sotto i loro occhi. Non più di quanto , d’altro canto, succeda alle forze dell’ordine, mandate ad investigare su alcune strane sparizioni e rappresentate qui da due bizzarri poliziotti ,eternamente di scuro vestiti e in bombetta sullo sfondo del mare e del cielo grigio-azzurri, che paiono usciti direttamente da un fumetto di “Tintin”.
La satira nei confronti dei ricchi villeggianti ( impersonati da attori del calibro di Fabrice Luchini, Valeria Bruni Tedeschi e Juliette Binoche, costretti peraltro quasi all’autoirrisione ed alla vera e propria deformazione fisica e linguistica ) è particolarmente dura e insistita, oltre che francamente un pò ovvia. Vengono in mente registi del calibro di un Losey ( “Il servo”) e soprattutto Bunuel che , ne “Il fascino discreto della borghesia “, aveva raggiunto nel genere risultati di ben altro spessore e “vis” polemica. Ma Dumont procede imperterrito oltre la satira e l’umorismo per cimentarsi con una dimensione ancora più perigliosa, quella del grottesco e della farsa surreale, che solo a pochi registi talvolta è riuscita ( ad esempio Jerry Lewis e il Woody Allen prima maniera ). Talmente è cruda ed insistita la giustapposizione dei due ambiti economico-sociali da lui descritti, talmente “enorme”, od abnorme, la costruzione narrativa cui egli ritiene di essere pervenuto che nulla più gli sembra precluso. Che, quindi, le dame del bel mondo siano soggette a strani fenomeni di lievitazione mistica, che i pescatori-antropofagi rimettano in libertà senza essere inquietati i borghesi frastornati e malconci che avevano catturato per ucciderli e divorarli, che i poliziotti gonfi di frustrazione e di stress da mancata “performance” incomincino a loro volta a volare , tutto questo gli sembra artisticamente e concettualmente giustificato, coerente con l’immaginario figurativo del film e funzionale alla tesi anarchico-nichilista che ad esso è sottesa.
In realtà, a parte le primissime scene , che incuriosiscono per la singolarità dei personaggi , la bellezza dei paesaggi ed il vago sentore ( presto deluso ) di congrui sviluppi narrativi, si ride poco e la noia ed il disagio planano progressivamente sullo spettatore. L’eccesso di irrisione verso tutti ( anche i sottoproletari non sembrano riscuotere le simpatie del regista ) e le “gags” piuttosto ripetitive, prive di ritmo, stancano e francamente talvolta risultano addirittura imbarazzanti , non facendo così scattare quell’adesione , quel coinvolgimento che è indispensabile per condividere fino in fondo le “ragioni” estetiche di un film ed accettare almeno il suo assunto ideologico. Resta l’abilità del regista, manifesta ad esempio nella bella scena del salvataggio nel mare in tempesta o nel “faccia a faccia” tra le due “tribù” contrapposte dopo la processione ( che è l’unico momento in cui il determinismo ed il sostanziale pessimismo di Dumont appaiono forniti di una evidenza genuinamente “cinematografica” ). Resta la recitazione degli attori: non solo i “ ricchi “, tutti attori come si è visto già affermati, ma anche gli “antropofagi” , scelti con sorprendente rigore plastico tra gli stessi abitanti di quella bella ma derelitta regione di Francia . Troppo poco, però per giustificare le lodi sperticate ricevute dal film ad opera della critica transalpina ( sempre più preoccupantemente sciovinista ).
Tutt’altra amministrazione, verrebbe fatto di dire, per “Un, due, tre !”, il film di Wilder che ho voluto rivedere subito dopo per constatare se fosse invecchiato o meno rispetto a quel 1961 ( cinquantacinque anni or sono ! ) in cui uscì sugli schermi. Il grande Billy ( basterebbero due titoli, tra le sue commedie: “A qualcuno piace caldo” e “ L’appartamento “ ) lo ambientò nella Berlino divisa in due, poco prima della costruzione del muro, sfidando le opinioni contrarie di quanti sostenevano che con la guerra fredda e la possibilità che si trasformasse in guerra atomica ci fosse poco da scherzare e a dimostrazione del fatto che, se si hanno le idee giuste, tutto può essere oggetto di satira ( qui , come in “Ma loute”, addirittura di farsa ) .
La vicenda, probabilmente, chi conosce il film la ricorda. Il rappresentante della Coca Cola a Berlino Ovest, uno di quei cinici marpioni che sono la specialità del regista, accetta volentieri di ospitare a casa sua l’ irrequieta figlia del gran capo della “corporation” di Atlanta, suo superiore diretto, nella speranza di ottenere una promozione. Ma la ragazza si invaghisce di un suo coetaneo tedesco, abitante nella parte Est della città e per giunta fiero militante comunista, addirittura lo sposa. Di che rovinare il fegato( e la carriera) del nostro “executive”, specie perchè i genitori della ragazza , ignari della bella impresa della loro figlioletta, stanno a loro volta per giungere a Berlino con le conseguenze che si possono immaginare. Non resta quindi a McNamara ( il rappresentante della Coca ) che escogitare un piano mirabolante e rocambolesco, attuato in poche ore, per traghettare a Berlino Ovest il bellimbusto neosposo - nel frattempo finito, ad Est, nelle grinfie della polizia comunista- e ... trasformarlo in un presentabilissimo giovane capitalista di belle speranze per la gioia di mamma e papà.Il finale non ve lo racconto perchè Wilder, con uno dei suoi falsi “ happy endings”, spiazza lo spettatore una volta di più.
Verrebbe fatto di definire questo film una ennesima dimostrazione da parte del regista di quanto siano assurdi e vacui gli idoli della nostra società ( il denaro , il potere, il successo ) quasi in un moderno “morality play”, se non fosse che, qui, anche le retoriche ed ambigue speranze di rinnovamento dell’umanità ( il marxismo , la pretesa purezza di un mondo di eguali ) sono bersaglio della stessa satira e si rivelano altrettanto fragili e deludenti. Questo è il “cinismo “ di cui spesso è accusato Wilder dai suoi detrattori. Ma è anche il suo “humour” disincantato che lo fa diffidare di tutte le costruzioni ideologiche, di tutte le strutture sociali che vogliono asservire l’individuo e che contrastano con i suoi bisogni primari: la verità , l’amore, il rispetto per tutti gli esseri umani.
Il film va visto ( e secondo me rivisto) per studiare la tecnica del “ divertissement “, fatta tutta di “gags” visive irresistibili , un congegno ad orologeria in cui ogni piccolo pezzo va perfettamente al suo posto per la gioia dello spettatore . Una farsa, un grotteso crescendo di qui pro quo non sempre di gusto raffinato ( anche Lubitsch, il maestro di Wilder, era prodigo di allusioni e di doppi sensi ) ma che colpiscono nel segno , strappano irresistibilmente il riso e procurano una grande gioia liberatoria ( liberatoria dagli stupidi schemi in cui troppe volte la nostra vita è avviluppata ). Fantasia , ritmo , invenzioni comiche si susseguono instancabilmente , magnificamente serviti- come sempre nei films di Wilder- da una splendida direzione di attori : tra tutti James Cagney nella sua ultima parte di canaglia intelligente, Pamela Tiffin, perfetta svagata erediteria , e la deliziosa Liselotte Pulver, piccante segretaria teutonica.
Che dire di più , oltre che consigliarvi vivamente di andare a cercarvi il DVD di un film che non è tra i più celebrati di Billy Wilder ma che vi farà passare un’ora e tre quarti di autentico , sano divertimento. Ecco , ripensando a “Ma loute” di cui ho parlato prima, la grande differenza tra quelli che io considero i grandi cineasti ( soprattutto del passato , ma anche qualcuno di oggi ) e quelli che invece falliscono i loro progetti . I primi ( e Billy Wilder è tra questi ) possono essere critici ,polemici, anche ferocemente sarcastici a volte. Ma essi, alla fin fine, amano l’uomo, hanno rispetto per tutte le incarnazioni della nostra imperfetta umanità ed i loro films - seri o faceti, non importa -ci danno coraggio e sono fonte di ispirazione.Anche nella farsa più sfrenata ( che è poi un genere cinematografico rispettabilissimo ) non perdono di vista la necessità di comprendere le nostre debolezze e di considerarle parte insostituibile della nostra dolorosa condizione umana . E per di più, con lo stesso rispetto che hanno verso i loro personaggi, quei cineasti rispettano il pubblico , non fanno un cinema per pochi eletti ma lavorano, riuscendovi, per essere compresi ed amati da tutti . Il cinema - questa è una delle poche certezze che ho in materia- è, e deve continuare ad essere, spettacolo schiettamente popolare .Che non vuol dire facile o sguaiato ma comprensibile ed aderente alle nostre vere preoccupazioni.
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