Cosa deve avere un film “ politico “, al di là del suo assunto più o meno condivisibile, per essere un film anche cinematograficamente valido ? La risposta è , io credo , una vicenda e dei personaggi che stiano in piedi indipendentemente dal significato ideologico che gli autori hanno voluto dargli. Ovvero che parlino ai nostri sensi ed al nostro cuore, insomma che ci avvincano e ci emozionino di per sè stessi , per la compiutezza della loro creazione artistica, per la bellezza e la coerenza delle forme che assumono sullo schermo. Tutto questo prima ancora che il “ messaggio “ , come si diceva una volta , ci raggiunga ed eventualmente ci convinca o almeno ci faccia riflettere.
Questo è quello che ho pensato- e potuto constatare - mentre si dipanava davanti ai miei occhi l’odissea del protagonista del film di cui sto parlando. La storia è molto semplice ed , haimè , a noi piuttosto familiare in questi tempi poco allegri. Daniel Blake ,valente artigiano nato e vissuto in una località del Nord dell’ Inghilterra , ha perso il lavoro a causa di un incidente cardiaco ed è costretto ad una forzata e penosa inattività, per niente allietata dalla condizione di vedovo recente e dalla mancanza di forti relazioni interpersonali. Intorno a lui, per soprammercato, quasi nulla sembra invitare al sorriso . La città , un tempo prospera e ricca di fervore lavorativo,ora langue tra lunghe file di disoccupati , aree urbane in piena decadenza, scarsa circolazione di sentimenti e di ideali. Il nostro Daniel avrebbe diritto alle provvidenze dello stato sociale ma rischia invece di vedersi tolto il sussidio di disoccupazione nè può accedere, come alternativa , ad una indennità di invalidità perchè le sue condizioni di salute non appaiono giustificarla. Questo , almeno , è quanto sostengono gli uffici del “ Welfare “ cui inutilmente si rivolge più volte per perorare la sua causa. Ed il film descrive con un rigore quasi documentaristico la cieca , burocratica insensibilità contro cui si scontra il nostro eroe. Se valgono, a tratti , a restituirgli un pò di fiducia nell’umanità l’amicizia con un vicino di casa, extracomunitario di buon cuore, ed il delicato rapporto che si instaura tra lui ed una ragazza-madre ( la figlia, in un certo senso, che Daniel e sua moglie hanno sempre rimpianto di non aver avuto ) le vessazioni amministrative cui è costantemente sottoposto e la precarietà della sua condizione lo accompagnano in un inesorabile crescendo fino al tragico epilogo.
Qui il significato politico della vicenda, per chi lo vuole trarre, naturalmente c’è e come. Ed il regista è piuttosto conosciuto per le sue idee, a sinistra dello stesso partito laburista. Ma questa volta, a differenza di altre sue opere di più netta ispirazione ideologica, vicenda e personaggi risultano di una grande evidenza plastica senza quella retorica un pò sopra le righe che rischierebbe di indebolirne il risultato estetico . Sono , come dicevo prima , l’una e gli altri perfettamente riusciti dal punto di vista della semplice esposizione cinematografica, capaci di funzionare autonomamente in prima battuta.
Che poi , a ben guardare, proprio l’elemento politico presente in questo film di Loach trascende la semplice condanna dei tagli al “ Welfare “ operati dal governo Cameron o la scontata critica all’aggravamento delle condizioni di vita delle classi subalterne per allargarsi ad una più ampia e dolorosa illustrazione dell’odierna condizione umana . Loach è valente nel farci toccare quasi con mano, nello svilupo narrativo della vicenda e nella descrizione di quegli ambienti cittadini grigi e tristi, la profonda infelicità della nostra esistenza sempre più massificata, in cui l’individuo viene privato progressivamente di solidi ancoraggi : quelli che una volta erano rappresentati dalla famiglia , dal lavoro, dalle speranze ( o dalle illusioni ) politiche, dalla solidarietà che spontaneamente si stabiliva tra coloro chiamati a condividere la stessa situazione economico-sociale. Una società , che sia di destra o di sinistra non importa, in cui tutti noi rischiamo di diventare piccolissime particelle disunite e dominate da poteri sempre più anonimi, invasivi ed arcigni : proprio come gli uffici del Welfare con cui Daniel cerca di intrecciare un impossibile dialogo e nei confronti dei quali riafferma con tenace orgoglio la propria identità di essere umano, unico ed irripetibile, fatto di cuore e di mente, non un semplice numero quale lo si vorrebbe far diventare.
I Daniel Blake, noi Daniel Blake dovremmo dire in realtà perchè tutti , sembra ammonirci Loach , siamo partecipi di questo mondo disumanizzato , in cui sono i computers a scandire la nostra esistenza e le regole che ci governano risultano sempre più lontane dai nostri bisogni e dalle nostre aspirazioni. Non ancora “ 1984 “ di Orwell ma certo una società ben diversa da quella che avevamo sperato di vedere un giorno. E la vicenda che il regista britannico ci propone ne è la perfetta ed artisticamente felice illustrazione. Basti pensare all’inizio del film , mentre scorrono i titoli di testa, ed a quel dialogo fuori scena tra Daniel ed una assistente sociale che lo interroga sulle sue condizioni di salute con una serie di domande astruse ed esilaranti ( se non fossero agghiaccianti nella loro dimensione avulsa dalla realtà ) per avere già la “ cifra “ di un film davvero “ umanistico “ , nel senso del rispetto e dell’ amore per l’uomo, l’uomo vero fatto di carne e di sangue, che la vicenda sottende. E a proposito di macchine - che fatalmensi contrappongono all’uomo- come non simpatizzare con il regista , ormai ottantenne e con tutta probabilità poco “ informatizzato “ come tanti della sua età , quando ci mostra la rabbia e l’ impotenza di Daniel, costretto dall’odierno dominio della cibernetica ad effettuare il più piccolo passo amministrativo attraverso uno strumento con il quale ha scarsa dimestichezza e che lo umilia facendolo sentire tagliato fuori dal mondo. E che , soprattutto, riduce ancora il tasso di contatto umano cui ci troviamo oggi esposti nelle nostre esistenze.
“ I Daniel Blake “ mi è piaciuto perchè è un film coraggioso, virile oserei dire con termine desueto, scevro da sentimentalismi eccessivi e tutto teso a dimostrare con linguaggio cinematografico fluido e convincente quanto la vita possa essere , in determinati contesti, amara e difficile ma anche profondamente degna di essere vissuta. In certi momenti mi ha fatto pensare al nostro neorealismo dell’ immediato dopoguerra. Lontano come tecnica , intenzioni programmatiche e risultati estetici dai capolavori di De Sica e Rossellini, nondimeno esso raggiunge momenti di grande verità espressiva , di scarna ed elevata poesia che mi hanno ricordato certi momenti di “ Umberto D. “ (De Sica ,1952 ). Il massimo riconoscimento ( la Palma d’oro ) tributatogli nel maggio scorso dal Festival di Cannes mi sembra questa volta ampiamente meritato. Esce sugli schermi a Milano ( e debbo supporre in tutta Italia ) nel prossimo mese di ottobre. Lo consiglio caldamente.
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