sabato 7 aprile 2018

" QUELLO CHE NON SO DI LEI " di Roman Polanski ( Francia, 2017 ) / " VISAGES VILLAGES " di Agnes Varda ( Francia, 2017 )

Roman Polanski ci ha abituato da tempo - il suo primo lungometraggio, " Il coltello nell'acqua", risale al 1962 cioè a più di mezzo secolo fa - alle atmosfere tese e sottilmente inquietanti, alle apparenze che celano altre e meno confessabili verità. Nulla di più, nulla di meno anche in questa sua ultima opera. Arricchita certo, rispetto alle prime,  dalla cospicua esperienza tecnico-stilistica acquisita nel frattempo e che fa di lui un piccolo maestro della " suspense " e dell'ambiguità. Ecco, con l'aggettivo " piccolo " accanto all'appellativo di " maestro "- lecito per le ripetute ed onerevoli prove di valentia che ci ha offerto nel corso della sua carriera - ne abbiamo , credo, più appropriatamente circoscritto l'importanza relativa nel variegato patrimonio filmico che si è andato  nel frattempo accumulando davanti al nostro sguardo. Indubbiamente Polanski è bravo ( tecnicamente, sintatticamente ). Il suo mondo, le situazioni ed i personaggi cui egli dà vita sullo schermo, costituiscono una " cifra " narrativa accattivante, cui è lecito indulgere nel nostro non tanto segreto desiderio di andare al cinema per ricavarne quel brivido, quel briciolo di paura che , dal calduccio della nostra poltrona di spettatori, possa rassicurarci sulle nostre piatte ma meno pericolose esistenze. Poco a che fare insomma con altri , grandi ( questi sì ) creatori di ombre ben più inquietanti ed angosciose , anche quando rivestite dal velo dell'ironia. Penso a  Lang, a Welles, ad Hitchcock ( al quale ultimo, Polanski- non privo a sua volta di una buona dose di " humour "- è stato di tanto in tanto erroneamente accostato ) .Meno  profondo o tematicamente ricco, il cinema di questo giramondo - polacco di origine, ha vissuto e lavorato in Gran Bretagna e negli Stati Uniti prima di accasarsi definitivamente in Francia più di trent'anni or sono - riflette purtuttavia le giustificate angosce di un esule, di un incorreggibile " outsider " che toccano  sentimenti diffusi, preoccuazioni e timori di una buona parte di noi. E lo fanno sempre, ripeto, con modalità e risultati di decoroso spessore.

Anche in questo film la protagonista, una scrittrice in debito di ossigeno creativo ed esistenziale, depressa e priva ormai di slancio vitale, a seguito di un fortuito incontro si trova  confrontata ad un misterioso personaggio femminile," Elle " ( " Lei " ) una sorta di " alter ego " che appare quasi sorto dal nulla e nel nulla è destinato a confluire alla fine del film . Volitiva, assertiva, piena di subdolo ma efficace spirito di iniziativa, Elle sembra  giocare a rimpiattino con la scrittrice, ora blandendola ora mettendone a repentaglio le poche,residue certezze, dandoci l'impressione di volerla soppiantare, plagiare impadronendosi della sua identità, in un crescendo di ambigua ed  elegante ferocia. Sospesa tra finzione e realtà ( il titolo originale " D'après une histoire vraie ", cioe " Basato su di una storia vera ", è una sardonica strizzatina d'occhio allo spettatore ) la vicenda raffigurata da Polanski è raccontata  , secondo il suo stile, attraverso situazioni, immagini, dialoghi ( la sceneggiatura è di Olivier Assayas, a sua volta oltre che sceneggiatore regista ) a volte semplicemente bizzarri a volte  più scopertamente inquietanti. " Elle " esiste veramente o è il frutto della fantasia malata di un' artista ( lo stesso Polanski ? ) e  lo specchio delle sue insufficienze e  della sua solitudine ?
Molto è affidato, come sempre , alla bravura degli interpreti ed alla loro capacità di calarsi  nei personaggi, conservando al tempo stesso quel tanto di distacco e d autoironia che è tipico  di Polanski e che conferisce alla sua maniera di " fare cinema " una genuinità ed una leggerezza che la rendono simpatica anche quando sfiora la ripetitività e l'artificio. Emmanuelle Seigner ( la scrittrice ) è ormai, oltre che la compagna di vita del regista e la sua ispiratrice, una attrice con i fiocchi e lo dimostra  ampiamente. Appesantita dagli anni ma sempre bellissima, assume la fragilità del suo personaggio sposandone le evidenti contraddizioni e impedendoci intelligentemente di identificarci con esso. Eva Green, attrice relativamente nuova ma già conosciuta, interpreta Elle con l'apparente perfidia che la storia le attribuisce. Affascinante anche lei, è anche molto abile nel dare corpo ad un personaggio di così problematica esistenza e contribuisce non poco a rendere il tutto saporito e piccante quanto basta. Certo, siamo di fronte ad un puro " divertissement ",  probabilmente non ad un'opera nata da una genuina " necessità " espressiva. Ma chi ha detto che l'artigianato non possa a volte sostituire l'arte con qualche probabilità di successo ?


Tutt'altro discorso occorrerebbe fare  per un' altro cineasta francese che ci ha dato in questa stagione un nuovo, bellissimo film . Si tratta di una donna ( purtroppo sono ancora troppo poche nella regia ) ed il suo nome è Agnès Varda. Se il suo secondo film ( " Cléo dalle cinque alle sette " ) rimane uno dei più raffinati e struggenti frutti di quella feconda stagione cinematografica che sono stati i primi anni ' 60 del secolo scorso, la decana del cinema d'oltralpe ( 88 anni pieni di saggezza e di voglia di vivere e di creare ! ) in tutti questi anni non ha mai smesso di cercare nuove vie, di sperimentare con la freschezza e la curiosità che la contraddistinguono. Oggi , dopo varie incursioni un pò in tutti i generi ma sempre infondendovi l'impronta della sua  singolarità di " autore " personalissimo e continuamente rinnovantesi, con " Visages, villages " torna al documentario, inteso come " non finzione ", opera cioè che desume la sua ispirazione e la materia prima di cui questa si alimenta direttamente dalla realtà, senza il filtro di una " storia " inventata. Ma noi sappiamo che l'arte è sempre finzione nella misura in cui riflette e riproduce quella particolare immagine della realtà che è vista con gli occhi dell'artista : singolare ed unica, non semplice decalcomania riproducibile all'infinito ma irripetibile visione del reale  e quindi artistico " infingimento ". Il " documentario " della Varda non è quindi tale se non nella misura in cui ne sposa le tecniche esteriori ( i luoghi dell'azione sono quelli ripresi oggi così come sono, quasi tutti in esterni, ed i personaggi sono persone " autentiche ", con nome e cognome , che interpretano sè stessi ). Per il resto, è la regista ( qui anche sceneggiatrice ) che, nel raffigurare lo scorcio di realtà che costituisce l'oggetto del film, lo " piega " per così dire  ad esprimere la " sua " visione delle cose o, meglio, coglie di esso quanto le abbisogna per dare corpo al suo mondo interiore ed esplicitare così la sua " posizione morale " di fronte alla vita (che è ,come sappiamo, l'imprescindibile essenza di ogni manifestazione artistica ).

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